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lunedì 24 settembre 2018

Un nuovo modo di sfidare il Nulla (II edizione)



Credo che la maggioranza degli italiani abbia sentito come un campanello di allarme per un frangente tragico la notizia della sfida blakout messa in atto il 6 settembre dal 14enne Igor Maj di Milano, e si siano accorti che abbiamo perso i contatti con una nuova visione del mondo e della vita da cui sono sommersi un numero non indifferente dei nostri adolescenti. Mi ha colpito la frase del padre del ragazzo: questi “pensano in modo lineare” e concepiscono semplicisticamente l’esistenza “come se ad una causa potesse corrispondere un solo effetto”.
Scorgiamo in falsariga l’emergere dell’ideale del Superuomo caro a Nietzsche, a D’Annunzio, ai profeti del nichilismo condito in varie salse. Alla base del progetto sta l’individualismo, con la negazione di ogni interferenza della comunità umana (che è superiore all’individuo) e di ogni Essere superiore; vi stanno pure l’assolutizzazione della libertà individuale, l’autoaffermazione identificata con la violazione di ogni limite, l’illusione di un progresso assoluto e sempre positivo (le famose sorti progressive de “La ginestra”), l’inesistenza del male soprattutto morale, l’assunzione del modello dionisiaco (la piacevole euforia, la goduria delle emozioni forti), l’incapacità di distinguere mondo virtuale da reale. Si supera il biblico “Non serviam” per acconsentire all’ “Eritis sicut dii”, come insegnava Nietzsche nei “Frammenti postumi”: “Dobbiamo conferire a noi stessi gli attributi che assegnavamo a Dio”. Si tratta in fondo dell’uomo che s’installa  al posto di Dio creatore (sfida di onnipotenza, autorealizzazione) e retribuitore (conquista della felicità che mi darebbe anche una droga come l’Lsd).
Quale dovrebbe essere la reazione della società tutta (famiglia, scuola, comunità civile e religiosa)? Ma alcune di queste comunità sono “in tutt’altre faccende affaccendate” (i politici hanno l’Europa che “rompe”, l’immigrazione che incombe) e queste quisquiglie non procurano suffragi alle prossime elezioni. E guai a chi tocca la libertà, mentre forse stiamo scivolando verso una  fatale “democratura”. A complicare la faccenda basta la considerazione che l’equilibrio morale (la capacità di decidere per il bene) è frutto di una lunga, comunitaria e non ondivaga  formazione che incontra il suo punto debole proprio nell’entusiastico ma fragilissimo periodo adolescenziale, quando abbondano le pulsioni e si mostra precario il sistema frenante. Non sarà cosa facile comunicare col nuovo mondo di quelli che, per strana connessione, si chiamano “social”: non facile il trattare per regolamentarli coi potenti imperi che li gestiscono, e neppure facile il convincere i propri figli a lasciarsi sindacare sulla recezione. Ma è nei due casi questione di vita o di morte.



Ricerca di un appoggio più consistente del Nulla

Ho letto con ammirazione i preziosi consigli che il padre Ramon del compianto Igor il 10 ottobre ha presentato a una scuola di Bergamo ammonendo i coetanei a non rimanere soli nell’uso dei social media. E mi sono chiesto se questo può essere proposto come una terapia totale per curare la mancanza di qualcosa di più importante.

Chi opera “in grande” ha bisogno di avere davanti agli occhi un ideale consistente e attraente. L’adolescente in particolare  vive esistenzialmente di un ideale che è per lui ragione di vita; di una vita non fondata essenzialmente sul sentimento, ma su un’immaginazione sostenuta dalla ragione, evitando gli ideali angusti, parziali ed esclusivamente appariscenti. Si devono decisamente considerare inadatti dei progetti che non aiutano l’adolescente a costruirsi quella pienezza di umanità che rappresenta la norma naturale della persona che è giunta al traguardo generalmente ritenuto normale. L’ideale deve anche essere raggiungibile, almeno nella quasi totalità, per evitare  la terribile situazione di una deleteria delusione totale.
Questi seri problemi cadono male in una cultura d’indipendentismo assoluto, o in orientamenti antirelazionali, antivalorici, perché antimetafisici. Nell’indecifrabile epoca postmoderna in cui viviamo è facile seguire il richiamo di sirene nuove, che ogni buon Ulisse dovrebbe decisamente  trascurare.
La bontà dell’ideale è commisurabile alla sua consonanza con la dimensione della persona, che è costitutivamente e operativamente relazionale, sullo schema Io-Tu-Noi (vedi Martin Buber). L’arrestarsi nelle scelta al solo individualismo (coi sui derivati dall’autosufficienza e autoisolamento) è la trappola mortale in cui il nostro Occidente è caduto a partire dall’Illuminismo.

Seguendo un’acuta analisi di Roberto Pertici (che si appoggia a Rod Dreher), è in atto una subdola, ma correggibile, “mutazione metafisica” (l’espressione è di Michel Houellebecq), introdotta da una duplice rivoluzione: sessuale (1960) coll’individualismo, pernicioso per la persona e la famiglia, che raggiunge ciò che è per natura relazionale; tecnologica (1980), condita di futurismo acritico, di rifiuto di ogni tradizione, di esclusione della riflessione. E mi son ricordato di aver trovato idee analoghe nel sempreverde G. K. Chesterton, o quella perla di P. Claudel che è la domanda “A che serve la vita se non per essere data?”.
Che pensare allora della nostra funzione di credenti? Per sottrarci alla desolazione dell'individualismo pensiamo che la relazione ha una multidirezionalità: è verticale e orizzontale. Detto in casa cristiana, dove la Chiesa è "comunione", chi non ha al disopra di sé un Padre che ci ama, e al nostro “parallelo” dei fratelli da amare, si è amputato di qualsiasi necessario ideale per cui veramente valga la pena di vivere. Qui e altrove.
 
                                                                       
                                                       

sabato 10 settembre 2016

Chiacchiere di casa nostra

Italia anticattolica e anticlericale

Una buona parte degli italiani ostenta un’insofferenza contro Chiesa e Clero, rivendicando persino la corrispondente libertà d’insulto, o peggio.
Si organizza spesso in televisione una virtuale seduta di tribunale, come per esempio col programma “In onda” (anomala?), animato da due spiritelli (uno titolato abate, l’altro aspirante rabbino) che sostengono la parte degli “amici” di Giobbe, aiutati da consimili, con l’opposizione di un accerchiato cattolico, magari indigesto. Poco tempo fa era di turno la libertà (nome sacro per i dissacratori!)  dei gay di convolare a coonestate nozze. Ogni tanto usciva dal letargo uno stralunato Luca Fontana che ostentava un’esagerazione di laicità contro l’invadenza di cardinali e sottospecie, dei quali si sciorinavano indimostrabili trascorsi subangelici, chiedendosi se in uno stato sovrano dovevano decidere tutto loro, come se fossimo….prima del 1870 nello Stato della Chiesa! Chiediamoci: se un gruppuscolo di esagitati pretende di imporre la mordacchia ai molti benpensanti, ma poco loquenti, cattolici, si può ancora parlare di democrazia?
Altro esempio: sacro orrore per la proposta del “Giorno della fertilità”, richiamante l’offerta alla Patria (vocabolo desueto) dei figli per gli otto milioni di baionette al fine di ottenere in due settimane una vittoria “di regime”; senza spremere un sacco lacrimale per le oggettive statistiche più infauste sulla denatalità pubblicate naturalmente dai soliti…. clericali. Con la conseguente diplomatica “ritirata” di chi ci governa in un iperuranio, che però comincia a perdere la vernice. A proposito d’identità, da noi si usa la perifrasi “questo Paese” per evitare l’inconfessabile dichiarazione dell’amor di Patria, essendo Italia nome applicabile solo alla nazionale di calcio (aveva ragione Carducci: “Itala gente da le molte vite”).
Se aggiungiamo che il coniglismo italiano ha teatralmente innescato la miccia alle sue batterie per reagire alla satira, non dimostrante certo “esprit de finesse”, del famigerato settimanale francese sul terremoto in Italia con una fatwa senza appello (CorSera: “Un’aggressione offensiva, Charlie è indifendibile”), rispetto alla metà delle sue…truppe mosse in disapprovazione del ludibrio perpetrato l’anno precedente in una vignetta contro tutte le tre religioni monoteistiche, vediamo che è meno rischioso sparare al gregge cristiano che non all’islamico branco.
Retrocedendo più oltre, domandiamoci quali argomenti gli anticattolici hanno usato, e vittoriosamente; nelle loro battaglie. Di solito occultano i veri motivi dietro temi più significanti per la grande massa. Come nell’aborto procurato: era un reato (fascista) contro la stirpe, poi contro la morale (cattolica), ora contro la persona; ostacola la liberazione della donna; è già legalizzato dai paesi più avanzati; fa sprecare molti soldi a chi voleva praticarlo all’estero.

Quale diagnosi possiamo avanzare sulla nostra situazione? Non solo abbiamo abbandonato inorriditi la metafisica classica, ma anche la logica. L’amore della sophia (filosofia) ha ceduto il passo al pensiero debole, alla cultura liquefatta. Un riscontro pratico si ha dalla “pubblicità” (che si dovrebbe definire “un oltraggio all’intelligenza”) per es. delle poltrone che da anni minacciano di fare scadere gli sconti ad ogni domenica, oppure degli elettrodomestici che “costano poco” perché fanno grazia di un mezzo euro su un ammontare di qualche centinaio.

martedì 12 aprile 2016

Unitatis centrum



Unitatis centrum

La sapienza dei medievali - volendo indicare le qualità requisite per chi nella Chiesa debba assumere una posizione di guida - aveva formulato una strofetta più o meno come questa: Si doctus doceat, si prudens regat, si pius oret; si pater pascat. Naturalmente più d’una qualità deve essere attribuita ai grandi vescovi, quali furono, per esempio a Milano, Schuster e Martini.
Se teniamo fuori quadro la figura del “Papa orante” Joseph, possiamo distinguere nell’attuale Vescovo di Roma una duplice figura: “Papa docente” Francesco, e “Pastore comunicatore” Padre Jorge.

Assumiamo come pietra di confronto soltanto questi due testi (benché diversamente) importanti:
A - “Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,31s).
Vocaboli da precisare:
1)      Questo è detto a colui cui G. C. ha cambiato il nome in Kephas (pietra, roccia), che nella Bibbia è attribuito a Dio stesso o a G.C. come segno di assoluta fermezza e stabilità.
2)      Convertito, ravveduto (epistrépsas) = uscito dalla tentazione (cui erano sottoposti coloro che saranno detti “apostoli”) che si è realizzata nel prolungato e persistente “rifiuto della via della croce” (iniziato già con Mc 8,31-33), come fanno presagire definitivamente i vv. 33s e la “fuga” di tutti dal Getsemani (cfr Gv 16,32).
3)      Conferna (stérison) = rendi fermi, solidi (coloro che saranno “apostoli”) nella fede e vita cristiana.
B - “Il Romano Pontefice, quale successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei Vescovi, sia della comunità dei fedeli” (Concilio Vaticano II, costituzione Lumen gentium, n. 23; ma la frase è presa dal Concilio Vaticano I, costituzione Pastor aeternus, Prologo, vedi nel Denzinger, n. 3051).

Nei messaggi trasmessi dal nostro amato supremo Pastore troviamo i grandi documenti ufficiali (e, se volete, anche i primi quattro quinti della Lumen Fidei), ma anche le moltissime omelie, risposte ai giornalisti, notazione estemporanee (che non di rado qualificano o modificano alcune affermazioni precedenti). Portiamo qualche esempio: la coscienza individuale è norma “assoluta” (etimologicamente: solutus ab) di moralità / deve essere debitamente formata (ab extra); la vita e il pane che Cristo è venuto a portare sono prioritariamente quelli terreni / sono quelli “celesti” (Gv 6,26s; 10,10; 20,31); la misericordia divina deve essere presa “assolutamente” / deve condurre a migliorare la mentalità e la vita (metànoia; cfr Mc 1,15), sullo schema dell’alleanza non paritetica, ben sapendo che il dono è tutto di Dio (come, aprendo il rubinetto dell’acqua, non si nega che la corrente venga tutta dal serbatoio). E’ infatti segno di rispetto per l’uomo libero che Dio gli chieda di esprimere  una libera collaborazione al gratuito perdono.

Si dice da una certa parte: altro è il discorso magisteriale e altro quello catechetico-pastorale. E si tenderebbe a dire che, nel nostro caso, la differenza è soltanto di “stile”, di genere letterario; o che si tratta di adattamento pedagogico a chi incespica sulla strada verso la “verità” non ancora acquisita; o che non è utile distinguere tra essenziale e accessorio. La Fides qua (soggettiva, primaria)  non ammette passaggi a rate,  per partes (cfr 1Re 18,21; Mt 12,30): è un “salto” a piè pari.
A puro titolo d’esempio osserverò che in una trasmissione radiofonica sullo sport, se l’apparecchio ricevente “gracchia”, lo si cambia; ma se il giornalista non “rende” oggettivamente il gioco sul campo, si sostituisce proprio lui.

Chiediamoci se il “profugo” in cerca di luce, che cammina tra i sassi, è maggiormente disposto a recepire un allettante discorso “liberatorio” o una norma di vita che provenga ab extra dell’uomo (natura, Dio).
Non vorrei che, nel campo di battaglia tra Dio e il Maligno, che è il cuore dell’uomo, le forze del Bene, che lavorano anche nel peggiore di noi, non sappiano da quale parte schierarsi, come nell’esempio di San Paolo in 1Cor 14,8. “Se la tromba emette un suono confuso, chi si preparerà alla battaglia?”.


NOTA. Questa pagina è stata scritta nella prima metà di marzo, ma, dopo la pubblicazione dell'esortazione Amoris laetitia, assume una più chiara significanza.


giovedì 20 agosto 2015

Sappiamo perché si vive?



Non commettiamo l’errore di dimenticarci degli attuali drammi di molti giovani. nottate passate in bolge chiamate discoteca o rave, droghe (o superalcolici) sempre più varie e numerose, amore dichiarato irresistibile e sempre incolpevole per alcun disordine, uso della libertà che si traduce in illegalità, miraggio di una ricchezza facile benché disonesta, infatuazione per i movimenti terroristici, esclusione di ogni limite con la divinità, col prossimo e col mondo animale. Cercano qualcosa che fa loro superare una vita “senza sugo”, senza bussola, che è loro imposta dal “pensiero unico”. Le prime cause dei guai sono individuabili nell’individualismo assoluto che sconfina nell’antropolatria, nel terrensimo che esclude  il soprannaturale, nell’attualismo che ignora il passato e il futuro. La folle corsa del nostro tempo ha inciampato nell’ateismo ed è finita nel vicolo cieco del nichilismo. - Ci chiediamo quale colpa dell’attuale dissesto possano rimproverarsi la famiglia, la scuola, lo stato, la chiesa. Abbiamo insistito troppo sul rapporto ontologico con Dio e sulla obbligatorietà della legge; come se il fine dell’uomo fosse la gloria di Dio; ma non è Dio che ha bisogno di essere glorificato e obbedito, quanto piuttosto è Dio che manifesta la sua relazione di amore all’esterno per donarci la salvezza, cioè la realizzazione libera dell’essere umano secondo principi etici. E’ infatti miglior via per educare indicare un traguardo che fare rispettare un divieto. I due massimi autori cristiani della letteratura italiana teorizzano rispettivamente il teocentrismo ultrastorico (Alighieri, nel medioevo) e il riconoscimento che gli uomini “semplici” sono figli, aggiungendo la fraternità al duo libertà e uguaglianza (Manzoni, nell’età moderna). Altrove troviamo romanzi che s’intitolano alla noia, alla nausea, e così via.- La regola suprema dell’agire umano conduce alla realizzazione di alcuni valori, in sintonia col retto rapporto verso gli altri esistenti. Essendo però l’uomo per definizione “imperfetto” (non capace di raggiungere da sé la perfezione), ha assoluto bisogno di un intervento esteriore sull’intelletto e la volontà. La conoscenza non deve limitarsi alla misurazione e regolazione della natura, che si ottiene con la scienza; ma deve sforzarsi di pesare giustamente la consistenza dei valori fondamentali, che si ottiene nella sapienza di origine umana e sovrumana.  Dobbiamo far passare il principio che il fine della vita umana non è solo quello di raggiungere il benessere, azione in cui l’individuo è agevolato dalla comunità umana (religiosa e umanisticamente orientata), ma la felicità  nel tempo e nell’eternità, come ci aiuta a fare la chiesa cristiana. – Può servire la citazione di tre profeti biblici che illuminano l’elevazione agostiniana “Ci hai fatti orientati verso te, e il nostro cuore è insoddisfatto finché non trovi quiete in te”: Michea 6,14: “Mangerai, ma non ti sazierai….” (cioè non ti bastano i beni materiali); Osea 4,10: “Mangeranno, ma non si sazieranno….” (non ti bastano i piaceri sensuali, benché indorati di spiritualità); Aggeo 1,6: “L’operario ha avuto il salario, ma per metterlo in un sacchetto forato” (non ti basta provvedere all’edificazione della città dell’uomo).

                                                                                            



domenica 2 agosto 2015

Chi sono



BREVI CENNI BIO- BIBLIO-GRAFICI


Ho insegnato Lettere, Filosofia e Teologia (Cristologia, Ecclesiologia e Mariologia) a Verona.

Mia testi di laurea in Teologia: La Chiesa locale nelle attuali discussioni teologiche (prof. J. Vodopivec, 1972). Ne ho pubblicato circa una terza parte in Euntes Docete 3/1972, 333-401 (reperibile anche in estratto: La Teologia della Chiesa locale e i suoi orientamenti fondamentali, Pontificia Universitas Urbaniana, Roma 1974).



Su richiesta di alcuni interlocutori, segnalo il titolo di qualche volume da me pubblicato:

-         Gesù Cristo Figlio di Dio e Salvatore. Saggio di Cristologia patristico-storica e teologico-sistematica, Elledici, Leumann (TO) 1985

-         Il grande inganno, I Testimoni di Geova, Edizioni Carroccio, Vigodarzere (PD) 1986 e 1987

-         Fedeli alla Parola. Confronto biblico-teologico coi Testimoni di Geova, Elledici, Leumann (TO) 1991

-         Santa Maria scrigno dello Spirito Santo. La Mariologia nel contesto della Storia della Salvezza, Elledici, Leumann (TO) 2004

-         Patologia del sacro. La proliferazione delle sètte nel mondo contemporaneo, Il Cerchio, Rimini 2007

NB
 In quest’ultimo volume è possibile trovare una bibliografia (quasi) completa.

PS. Mio indirizzo e-mail: ancontri@libero.it



martedì 3 febbraio 2015

Se la Chiesa è in crisi



CRISI NELLA CHIESA, O DELLA CHIESA?

Nell’anno di grazia 2013 è cambiato qualcosa nella Chiesa cattolica, ma siamo sicuri che non è cambiata la Chiesa di Cristo

Papa Francesco proviene da un ambiente del Terzo mondo, abitato da popoli poveri e sfruttati, e in buona parte culturalmente deprivati; e sa benissimo che non si può proporre il Vangelo a chi ha lo stomaco vuoto

Papa Francesco, per superare un eccessivo centralismo romano e uno storico distacco dal popolo, vuol presentare al mondo una Chiesa semplice (che assume il modello più dal Gesù dei vangeli sinottici che dal Cristo dei rimanenti libri sacri)[1], che si identifica col popolo (e non solo coll’ordine sacerdotale) - anzi col popolo dei “poveri”[2] -, più attenta alla giustizia pratica che alla verità teoretica, che guarda più alla novità che alla tradizione, che esclude l’eccesso di legalismo (privilegia l’amore, la misericordia, la solidarietà, l’amicizia)
Queste preferenze possono ricondursi a un discorso più profondo: la duplice dimensione della Chiesa[3]; nella quale si deve considerare prioritariamente l’evento di grazia, (corpo mistico) rispetto all’istituzione umana che la comunica (organismo sociale)[4]

Papa Francesco[5] usa deliberatamente un linguaggio più “giornalistico” (per immagini immediate e facilmente fissabili), a briglia sciolta, piuttosto che uno magisteriale e teologico; e dà il primato della religiosità e dell’evangelizzazione ai “bambini (paidìa)” di Mt 18,1-5 (non solo “piccoli” per l’età; cfr il connesso Mt 18,6 che parla di  mikròi), alla “poveretta” di Mc 12,41-44, a coloro che sono chiamati ptochòi nelle beatitudini. Col rischio – come dice san Paolo (1Cor 14,8) - di emettere un segnale equivocabile che mette in crisi la buona riuscita della battaglia.

Papa Francesco si espone così involontariamente alle false e maliziose interpretazioni[6] dei mezzi di comunicazione sociale, i quali sono in gran parte usati da soggetti che ignorano l’a-b-c del Cristianesimo e/o si sono prefissati di deriderlo e combatterlo, presentando “ricette” molto gradite a chi non vuole idee chiare e regole precise, col pericolo di attuare il motto  “Penso e faccio come mi pare” (nichilismo, agnosticismo, relativismo, amoralismo, edonismo).
Con la conclusione della demolizione dei principi fondanti della nostra visione del mondo, quali ad esempio la dignità della persona umana, il privilegiare la “felicità” (o, come direbbe Francesco, la gioia) rispetto al piacere, l’apertura verso l’alto (l’Altro), la struttura della famiglia generatrice e formatrice, la società che non “sotterra” l’individuo.

Appendice


Un analogo caso di voluto fraintendimento l’abbiamo avuto a carico della famosa lezione tenuta all’università di  Ratisbona il 12 settembre 2006 da Papa Benedetto. Il quale, all’interno di un confronto tra il pensiero cristiano – che ammette la ragionevolezza della fede – e quello islamico – che la rifiuta - , citava un sereno dialogo  avvenuto nel XIV secolo, dove si chiedeva se fosse lecito diffondere la fede con la violenza piuttosto che con la ragione. Ciò alimentò un incendio di proteste di ampia parte degli islamici, che avevano ristretto l’attenzione al solo termine “violenza”; i quali non hanno evidentemente letto nulla delle travagliate vicende della loro vera storia religiosa, militare  e politica.


[1] L’accenno a questa duplice visione di Chiesa ci richiama che, a seguito delle nuove correnti cristologiche sottolineanti l’ebraicità di Gesù, siamo giunti alla rivalutazione del giudeocristianesimo. Già negli Atti troviamo una corrente ecclesiale che rimane nell’ambito giudaico (Giacomo fratello del Signore) e un’altra che si apre alla cultura ellenistica (Paolo). La Chiesa giudeocristiana, anche per alcune sue isolate impostazioni ereticali (es. gli ebioniti), si eclisserà nel IV secolo, fino ad arrivare al Concilio di Nicea (325) nei cui atti non compare la firma di alcun vescovo di quella tendenza. Vedi G. Acquaviva, La Chiesa-madre di Gerusalemme, Piemme, Casale M. 2000
[2] Che però, nella principale e prima delle beatitudini, non si può assumere soltanto nell’accezione sociologica (dove si dovrebbe usare pénetes), in quanto si usa il termine ptochòi, il quale rende piuttosto il significato teologico di khanì (Is 66,2), che “indica la povertà del mendicante, costretto ad abbassarsi, a curvarsi (… ) cioè ad umiliarsi per sopravvivere” (A. Poppi, I quattro vangeli. Volume II, Messaggero, Padova 2006, p. 105). Aveva interpretato ottimamente M. Lutero, quando parlava dell’uomo incurvatus (V. Subilia, La giustificazione per fede, Paideia, Brescia 1976, p. 143).
[3] Vedi il denso numero 8 della costituzione Lumen gentium del concilio Vaticano II
[4] Ciò porta in chiaro il limite base della soteriologia del Protestantesimo: ignorare o sottovalutare la mediazione creaturale, per la quale Dio si serve della natura umana di Gesù e di una comunità umana che è “sacramento” dello Spirito per donarci la salvezza, la verità e la grazia (cfr Gv 1,17). Dovrebbe preoccupare il fatto che molte forme di un Pentecostalismo sempre più in espansione partono dal presupposto dell’inesistenza dell’istituzione.
[5] Il quale ottiene un’incredibile personale popolarità mediatica, che viene esaltata dai “progressisti”, giustamente propugnatori di una recuperata sinodalità. Ma si può osservare che l’analoga popolarità, quando ottenuta da Giovanni Paolo II, può oggi venir qualificata come cifra di “centralismo” pontificio.
[6] Un caso paradigmatico si può trovare nel voluto fraintendimento della presa di posizione del Papa sulla reazione alla pubblicazione delle vignette anti-maomettane, ricorrendo all’efficace esempio di uno la cui madre è stata insultata, che perciò stesso ha il diritto di difenderla sferrando un pugno. Era lontanissima dal Papa la giustificazione della violenza degli estremisti; egli voleva indicare che esistono dei valori che non si possono demolire per obbedire all’aberrante ”adorazione” della libertà più assoluta. Ciò richiama alla mente l’improponibile interpretazione che presenterebbe un Gesù che loda le scelte dell’amministratore “dell’ingiustizia” (= infedele, disonesto) della parabola di Lc 16,1-12. Il nostro Maestro intendeva, pur attribuendogli la qualifica base di disonesto, indicare a noi l’esempio della modalità della sua condotta (avverbio phronìmos): “accortezza nel senso di scaltrezza” (vedi G. Bertram in Grande Lessico del NT, vol. XV, col. 168s; dove  si cita - in Mt 10,16 e persino in Gen 3,1 LXX - il significato di astuzia degna dei serpenti).

domenica 21 settembre 2014

Esemplare documento sulle "apparizioni"



Da “La voce del popolo” (settimanale diocesano di Brescia)
     home  torna indietro  stampa   12 September 2014
Diocesi
Ma la Madonna appare a un'ora stabilita?   
Negli ultimi tempi le apparizioni della Madonna si moltiplicano. Come comportarsi? Come vuole Dio che ci comportiamo di fronte a questi fenomeni? La riflessione del vescovo Luciano Monari


 

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Brescia.  Da un avviso parrocchiale: “Domenica alle ore 16.30 recita del Santo Rosario; seguirà la celebrazione della Messa. Alle ore 18.40 la veggente avrà l’apparizione della Madonna…”. Mi viene un sussulto: come? si può programmare anche giorno e ora dell’apparizione della Madonna? Immagino la Madonna che, assunta in cielo in corpo e anima, viene nella parrocchia x, nel momento in cui la veggente la invoca e mi sento un poco a disagio. Negli ultimi tempi le ‘apparizioni’ della Madonna si moltiplicano, tanto che si ha l’impressione di una strategia di rivelazione universale. Ai luoghi tradizionali (Lourdes, Fatima, La Salette…) se ne aggiungono molti nuovi, tanto che i vescovi fanno fatica a seguire tutto, a valutare la veridicità delle esperienze, a suggerire o scoraggiare l’afflusso dei pellegrini nell’uno o nell’altro luogo. 

Incoraggiare potrebbe essere un invito alla superstizione, al gusto dello straordinario; scoraggiare potrebbe essere una mortificazione dello spirito religioso. Come comportarsi? Come vuole Dio che ci comportiamo di fronte a questi fenomeni? Si ricorre al criterio evangelico dei frutti: se i frutti sono buoni, vuol dire che è buono l’albero, e viceversa. Ma anche questo non è un criterio sicurissimo: bisognerebbe che i frutti fossero tutti di un tipo – o tutti buoni o tutti cattivi. E purtroppo, di solito, i frutti si trovano mescolati; ci sono molti che si convertono e ritrovano la fede, la voglia di pregare: frutti buoni; ci sono anche manifestazioni di fanatismo o interessi economici ambigui: frutti acerbi.

Partiamo da una domanda semplice: dove si trova il Signore Gesù risorto? E dove si trova sua madre, risorta dopo di Lui e a motivo di Lui? Naturalmente non si trovano in un luogo particolare del mondo; in questo caso, sarebbe definibile il loro ‘luogo’ con delle coordinate cartesiane. Non è così: il luogo del Signore risorto, quello che sarà il luogo di tutti i risorti con Lui è semplicemente Dio. Gesù risorto vive in Dio; Maria assunta vive in Dio; noi risorgeremo in Dio. Naturalmente, né io né chiunque altro può spiegare come sia fatto questo misterioso ‘luogo’ che è Dio stesso o come si possa ‘abitare’ in questo luogo; non possiamo perché non conosciamo Dio se non in modo parziale, attraverso l’analogia. Vengono in memoria le parole decisive del Concilio Lateranense IV secondo il quale il vero Dio è “immenso, onnipotente, immutabile, incomprensibile e ineffabile” e, di conseguenza, “tra il creatore e le creature non si può osservare una qualche somiglianza che non si debba osservare tra loro una dissomiglianza più grande". 

Quando diciamo di Maria che ‘appare’ a qualcuno in un luogo e in un tempo particolare vogliamo dire in quel luogo e in quel tempo una persona (o un gruppo di persone) ha vissuto un’esperienza singolare e intensa della presenza di Maria; che ha ‘visto’ una forma umana riconoscibile come quella di Maria e udito parole umane la cui origine viene attribuita a Maria. Il fatto che altre persone, presenti nello stesso luogo e tempo, non facciano la medesima esperienza (non vedano la stessa forma e non sentano le stesse parole) significa che la percezione di Maria non è una percezione naturale (che ha origine cioè dai sensi e dal loro funzionamento usuale), ma, eventualmente, un dono speciale concesso a qualcuno per un motivo particolare di Dio. La forma, la natura, le caratteristiche di questa esperienza dipendono dal dono di Dio (che è libero) e dipendono dalla capacità ricettiva della persona stessa (che è comunque limitata). Posto questo, posso rivedere le immagini che mi erano venute in testa leggendo: alle ore 18,40 (colpisce la precisione!) apparirà la Madonna. Questo non vuol dire che la Madonna accorrerà in quel momento nella parrocchia di x lasciando il paradiso di Dio; e nemmeno che chi sfortunatamente in quel momento si trovasse lontano dalla parrocchia di x dovrebbe necessariamente rinunciare a incontrare la presenza di Maria perché Maria è ‘altrove’. Vuol dire invece che la veggente, che vive una devozione mariana particolarmente intensa e ha avuto doni di preghiera particolarmente vivaci, si porrà in quel momento in un atteggiamento di preghiera, nel contesto di una comunità che pregherà con lei; che questa preghiera potrà renderla ‘recettiva’ nei confronti della presenza soprannaturale di Maria (una presenza che, in qualche modo, c’è sempre quando un cristiano prega, ma che qualcuno, in un momento particolare, per grazia, può percepire con maggiore intensità e chiarezza); che addirittura, se Dio vorrà, in questa esperienza potrà accogliere un invito a un cammino di purificazione e di santificazione; che questa esperienza intensa potrà sollecitare altre persone presenti a fare anch’esse, nella preghiera, esperienza della vicinanza di Maria e, attraverso questa esperienza, esperienza dell’amore (anche) ‘materno’ di Dio stesso… Per questo assume grande rilevanza il giudizio sulla maturità, la fede, la sincerità, l’umiltà, il disinteresse dei ‘veggenti’.

In ogni modo vale anche per questa esperienza un principio della filosofia scolastica, secondo cui: “quicquid recipitur, ad modum recipientis recipitur”, e cioè: tutto ciò che viene ricevuto, viene ricevuto secondo la capacità e il modo di ricevere di colui che lo riceve. Il professore dice le medesime parole a una scolaresca intera, ma ciascuno degli ascoltatori riceverà i messaggi dell’insegnante secondo la sua capacità di ricevere (di capire, comprendere, afferrare). La ‘veggente’ parla e descrive la sua esperienza religiosa, sembra avere qualità buone di ‘ricezione’, altre persone sono portate ad aver fiducia in lei e accolgono come vere le sue parole, sono attirate a pregare a loro volta; ma, come per tutti, anche la ricezione della ‘veggente’ non è completa e perfetta e la sua esperienza non può diventare una regola che definisce l’esperienza religiosa degli altri. Ci potranno essere reazioni diverse: per alcuni pregare insieme alla veggente (o dove ha pregato la veggente) significherà fare un’esperienza particolarmente intensa, sentire un invito urgente alla fede, a una vita nuova e migliore; per altri quella esperienza rimarrà una semplice (che non significa banale!) esperienza di preghiera mariana. Bisogna però diventare attenti ai rischi che sono presenti in ogni esperienza religiosa di questo tipo: il primo è che la fede cristiana venga ridotta ai fenomeni straordinari mentre la vera misura della fede è l’obbedienza a Dio (“fare la volontà di Dio”) nel quotidiano; il secondo è che il gusto del miracoloso allontani dalla fatica di vivere la durezza del mondo per gustare la dolcezza dei mondi immaginari; il terzo è che nella figura di Maria vengano sottolineati elementi secondari e ci si allontani dall’essenziale: il suo ascolto della Parola di Dio, la sua fede obbediente, la sua maternità divina, la sua esemplarità nei confronti del mistero della Chiesa.

In concreto: se qualcuno trova in queste esperienze un arricchimento della fede, se ne serva con semplicità. Ma stia bene attento a verificare in se stesso gli effetti reali: sappia distinguere una reale crescita di maturità spirituale da un’emozione spirituale ambigua. È sempre possibile vivere processi di regressione nei quali diminuisce il senso di responsabilità delle proprie azioni: andare dietro a illusioni non è senza conseguenze negative sulla propria vita. Per un cristiano il criterio vero è Gesù Cristo: questa esperienza ti porta a conoscere meglio e ad amare di più Gesù Cristo? Ti spinge a una vita più evangelica, cioè più ricca di fede in Dio, di amore verso gli altri, di dominio di te stesso, di servizio umile…? O in questa esperienza sei portato a dimenticare Gesù Cristo, ad abbandonare la Messa, a considerare superflua la Chiesa? Cerchi forse una via di fuga facile dalla realtà troppo pesante? Se vuoi essere all’altezza della tua dignità di persona umana, devi porti questi interrogativi e devi rispondere con verità. Al contrario, se qualcuno non sente bisogno di queste esperienze o non trova in esse un nutrimento vero dalla sua vita spirituale, rimanga tranquillo; non si faccia scrupoli come se stesse rifiutando una grazia, ma non diventi nemmeno accusatore impietoso della fede (considerata infantile) degli altri. 

Una cautela particolare debbono avere, però, i preti. Il motivo è che un prete appartiene strutturalmente a un presbiterio e quindi coinvolge il presbiterio intero nella sua predicazione e nel suo ministero pastorale. I fedeli hanno il diritto di ricevere dai preti un insegnamento e una prassi sacramentale che li inserisca correttamente e in pienezza nel mistero della Chiesa, niente di meno (quindi un prete non può ‘facilitare’ l’appartenenza alla Chiesa esonerando da comportamenti necessari) e niente di più (quindi un prete non può esigere niente di più di quanto esige la Chiesa). Per questo un prete deve stare attento che i suoi comportamenti non si configurino (e non possano essere interpretati) come un’approvazione indebita di fenomeni sui quali la Chiesa non ha ancora dato un giudizio; si renderebbe responsabile delle illusioni e delle conseguenti deformazioni spirituali delle persone. 

Ho steso queste riflessioni senza riferirmi a casi particolari. Ho parlato quindi di ‘apparizioni’ in genere, prescindendo dai ‘messaggi’ che a volte sono legati a questi fenomeni. Sui messaggi bisognerebbe aggiungere altre riflessioni: che debbono essere uno stimolo a un’autentica vita di fede, di speranza e di carità; che debbono essere conformi con l’insegnamento del vangelo, con la fede della Chiesa, con la morale cristiana; se un messaggio si oppone alla fede (al Credo), il messaggio certo non viene da Dio. Soprattutto bisogna essere cauti quando si tratta di ‘profezie’ che anticiperebbero eventi (generalmente paurosi) del futuro. Nella maggior parte dei casi queste profezie sono fughe da un presente difficile da capire e da vivere, nascono da un risentimento inconsapevole nei confronti del mondo e della storia, distraggono le persone dalla responsabilità di vivere qui, oggi la volontà di Dio. Ma su tutto questo il giudizio ultimo appartiene al Papa e al collegio dei vescovi insieme con lui. A me e al presbiterio insieme con me il Signore chiede di vegliare perché il cammino dei credenti sia indirizzato correttamente verso una crescita di fede e non devii invece verso un desiderio non sano di cose straordinarie. I segni sono certamente preziosi, ma, in sé rimangono insufficienti (cf. Mt 7,22-23) e possono anche essere ambigui (cf. Mc 13,22); la fede nel Signore Gesù morto e risorto, l’amore verso il prossimo sono invece pienezza di bene e fondamento sicuro di speranza. A questo ci conducono la Parola di Dio e l’eucaristia che debbono essere la traccia centrale del nostro impegno di tutti i giorni.

Luciano Monari

martedì 8 luglio 2014

La forza dell'emotività



E’ auspicabile una felice convivenza tra fede e devozione

Confidiamo che l’eventuale pubblicazione delle decisioni romane sul fenomeno Medjugorje, invece di rafforzare la vera devozione, non conduca a una spaccatura nel popolo di Dio. Sarebbe tragico se la figura di Maria SS.ma non esercitasse il suo consueto ruolo di unificatrice. Proponiamo quindi alcune considerazioni..

Il rapporto con Dio che “si comunica” a noi cammina su due rotaie: l’accettazione delle verità rivelate e la loro traduzione in comportamento di vita. Poiché la prima può estremizzarsi nel razionalismo e la seconda nel sentimentalismo, queste due “anime”, che riconosciamo necessarie, devono conservare tra di loro una certa gerarchia. Mentre non possiamo disprezzare i segni anche affettivi della carità e della pietà, non dobbiamo sottostimare le basi anche razionali della fede e della speranza.

Il fondamento della religiosità sta nella fede e non nella devozione; come l’albero si fonda sulle radici, pur respirando attraverso il fogliame. La folla sterminata dei “devoti” non pretenda di essere, rispetto al dono della salvezza, l’elemento necessario e fondante, mente ne rappresenta solo la convenienza nell’ordine operativo. Se io scelgo un suggestivo luogo per confessarmi (questo è l’essenziale), è solo “occasionale” la storia per cui è nato quel santuario. Non è buon metodo se qualche osannato pubblicista vuole liquidare chi non è riuscito a surriscaldare col perentorio: “Voi non volete bene alla Madonna”.

E’ necessario che l’attaccamento alle devozioni non occupi tutto il campo delle fonti della vita cristiana; mentre i devoti sono encomiabili se riconoscono di aver accettato preventivamente la base di questa vita. Il fervore della vita di pietà non assicura di per sé l’oggettività della visione né la verità delle idee veicolate, che non di rado sono o insignificanti o ripetitive. E’ troppo semplice rallegrarsi perché, nella generale crisi spirituale che ci fa soffrire, le folle vengono ancora in chiesa; è più proficuo invece esaminarsi su quali contenuti della Bibbia e della grande tradizione abbiamo inculcato per secoli nella mente e nella vita dei nostri fedeli.

                                                                                       Antonio Contri








sabato 5 febbraio 2011

Due visioni di Chiesa

DI QUALE CHIESA SEI?

Si sono concretate oggi - con quale confusione fra i fedeli lascio immaginare - due letture del cattolicesimo diametralmente opposte, che si arroccano su un socialcristianesimo fine 1800 oppure su una battaglia antimodernista di inizio 1900. Prendendo esempio da una perversa politica, l’una “chiesa” per affermarsi mette alla gogna le espressioni esagerate dell’altra.
I – Socialcristiani, ammodernatori della vita cristiana.
Il cristiano vero è il filantropo, se non proprio l’agitatore sociale, e il cristianesimo consiste essenzialmente nell’equa ridistribuzione dei beni materiali. A ciò consegue il rifiuto di pensiero, morale, legislazione, liturgia propri della Chiesa tradizionale, benché alleggerita di alcune strutture indebitamente assunte nei secoli; consegue pure un’ideologizzazione del pluralismo (non scrivo: pluralità) totale e indiscriminato. Adduco due esempi.
A – Lev Tolstoj è sbandierato come “scrittore cristiano” da una rivista divulgativa che tratta di vita pastorale (febbraio 2011). Il suo è un cristianesimo ridotto a etica e rivoluzione sociale, senza gli orpelli di fede e vita liturgica. Il conte filantropo ha lasciato tutto e ha distribuito i suoi beni ai poveri. Potrei osservare che anche Gautama (ma ha fondato il buddismo), anche Gandhi (ma è rimasto induista), anche La Pira (ma aveva un’intensa vita di fede) hanno percorso esemplarmente quel sentiero. Ricordo anche che la carità non consiste principalmente nell’elargizione dei beni (1Cor 13,3). Tolstoj ricorda che Gesù invita a non vantarsi del titolo di “padre”, ma San Paolo può scrivere “sono io che vi ho generato” (1Cor 4,15). Dovrebbero leggere sul “santo” Tolstoj quanto ha scritto p. Castelli su La civiltà cattolica (agosto 2010) per vedere quale vita sregolata (l’articolista parla di “furia erotica”) e antievangelica visse il grande scrittore panteista (“Dio è l’illimitato Tutto”), sempre in fuga da se stesso. Se la Chiesa ortodossa russa lo ha scomunicato nel 1901, vogliamo farlo santo noi?
B – Le forme più ideologizzate della teologia della liberazione. Sono la metamorfosi in vesti cristiane della giustizia sociale imposta nei vecchi regimi del socialismo reale; ma questa “giustizia” ha aggiunto l’ingrediente della violenza antilibertaria e ha ridotto i credenti nelle catacombe della persecuzione.
La forma di vita cristiana che gli innovatori propagandano tende a mal sopportare ogni legge teologica, morale, giuridica, liturgica.
II – Fondamentalisti, in varia proporzione lefebvriani.
Secondo loro, la tradizione legittima della vera Chiesa di Cristo si è conclusa col Vaticano I e la lotta antimodernista. Il testo base per la fede non è la Scrittura, ma il Denzinger (nell’edizione però che arriva fino a Pio XII), raccolta che passa per le strettoie del consolidamento costantiniano ed ellenistico, della riforma gregoriana, del Concilio Tridentino. La liturgia latina è quella della Controriforma, oppure quella delle devozioni e usanze, anche marginali ammennicoli, che recentemente hanno preso il primato nella mente e vita dei fedeli. Fanno loro ribrezzo le aperture al riconoscimento della libertà di coscienza e di religione, del movimento ecumenico e dialogale interreligioso, della riforma liturgica paolina.
III - Una volta la Chiesa cattolica si distingueva per la sua compattezza (e talvolta uniformità), mentre ora viene la tentazione di concordare con quei teologi che rimandano l’unità dei fedeli alla fine della storia. Vogliamo coonestare le spaccature all’interno della cattolicità? Noi crediamo che l’immodificabile sta in Cristo e nella Chiesa degli apostoli e dei martiri delle catacombe. Il testo base è costituito dal Nuovo Testamento e dai padri, soprattutto quelli che prepararono il primo concilio di Nicea. A chi dice che Cristo è venuto per darci una vita meno miserabile diciamo che lo ha fatto per donarcene una ben superiore (Gv 10,10; 17,3) e che i poveri di Mt 5,3 sono propriamente gli umili davanti a Dio, che confidano solo in Lui; a chi si fossilizza su formalità che non sono assolute diciamo che la preghiera più pura è quella fatta “nella tua camera” (Mt 6,6) e che non si sbattono le porte in faccia a chi si vuol evangelizzare. La liturgia attuale è rinnovata, come è stata riformata più volte nella storia. Dobbiamo dare attuazione alla via prospettata da Giovanni Paolo II (enciclica Ut unum sint): una semplificazione e abbondante sfrondatura di tutti gli elementi accessori sulla base delle linee essenziali, espresse soprattutto nel primo millennio, quando la Chiesa cristiana era sostanzialmente una.