martedì 3 febbraio 2015

Se la Chiesa è in crisi



CRISI NELLA CHIESA, O DELLA CHIESA?

Nell’anno di grazia 2013 è cambiato qualcosa nella Chiesa cattolica, ma siamo sicuri che non è cambiata la Chiesa di Cristo

Papa Francesco proviene da un ambiente del Terzo mondo, abitato da popoli poveri e sfruttati, e in buona parte culturalmente deprivati; e sa benissimo che non si può proporre il Vangelo a chi ha lo stomaco vuoto

Papa Francesco, per superare un eccessivo centralismo romano e uno storico distacco dal popolo, vuol presentare al mondo una Chiesa semplice (che assume il modello più dal Gesù dei vangeli sinottici che dal Cristo dei rimanenti libri sacri)[1], che si identifica col popolo (e non solo coll’ordine sacerdotale) - anzi col popolo dei “poveri”[2] -, più attenta alla giustizia pratica che alla verità teoretica, che guarda più alla novità che alla tradizione, che esclude l’eccesso di legalismo (privilegia l’amore, la misericordia, la solidarietà, l’amicizia)
Queste preferenze possono ricondursi a un discorso più profondo: la duplice dimensione della Chiesa[3]; nella quale si deve considerare prioritariamente l’evento di grazia, (corpo mistico) rispetto all’istituzione umana che la comunica (organismo sociale)[4]

Papa Francesco[5] usa deliberatamente un linguaggio più “giornalistico” (per immagini immediate e facilmente fissabili), a briglia sciolta, piuttosto che uno magisteriale e teologico; e dà il primato della religiosità e dell’evangelizzazione ai “bambini (paidìa)” di Mt 18,1-5 (non solo “piccoli” per l’età; cfr il connesso Mt 18,6 che parla di  mikròi), alla “poveretta” di Mc 12,41-44, a coloro che sono chiamati ptochòi nelle beatitudini. Col rischio – come dice san Paolo (1Cor 14,8) - di emettere un segnale equivocabile che mette in crisi la buona riuscita della battaglia.

Papa Francesco si espone così involontariamente alle false e maliziose interpretazioni[6] dei mezzi di comunicazione sociale, i quali sono in gran parte usati da soggetti che ignorano l’a-b-c del Cristianesimo e/o si sono prefissati di deriderlo e combatterlo, presentando “ricette” molto gradite a chi non vuole idee chiare e regole precise, col pericolo di attuare il motto  “Penso e faccio come mi pare” (nichilismo, agnosticismo, relativismo, amoralismo, edonismo).
Con la conclusione della demolizione dei principi fondanti della nostra visione del mondo, quali ad esempio la dignità della persona umana, il privilegiare la “felicità” (o, come direbbe Francesco, la gioia) rispetto al piacere, l’apertura verso l’alto (l’Altro), la struttura della famiglia generatrice e formatrice, la società che non “sotterra” l’individuo.

Appendice


Un analogo caso di voluto fraintendimento l’abbiamo avuto a carico della famosa lezione tenuta all’università di  Ratisbona il 12 settembre 2006 da Papa Benedetto. Il quale, all’interno di un confronto tra il pensiero cristiano – che ammette la ragionevolezza della fede – e quello islamico – che la rifiuta - , citava un sereno dialogo  avvenuto nel XIV secolo, dove si chiedeva se fosse lecito diffondere la fede con la violenza piuttosto che con la ragione. Ciò alimentò un incendio di proteste di ampia parte degli islamici, che avevano ristretto l’attenzione al solo termine “violenza”; i quali non hanno evidentemente letto nulla delle travagliate vicende della loro vera storia religiosa, militare  e politica.


[1] L’accenno a questa duplice visione di Chiesa ci richiama che, a seguito delle nuove correnti cristologiche sottolineanti l’ebraicità di Gesù, siamo giunti alla rivalutazione del giudeocristianesimo. Già negli Atti troviamo una corrente ecclesiale che rimane nell’ambito giudaico (Giacomo fratello del Signore) e un’altra che si apre alla cultura ellenistica (Paolo). La Chiesa giudeocristiana, anche per alcune sue isolate impostazioni ereticali (es. gli ebioniti), si eclisserà nel IV secolo, fino ad arrivare al Concilio di Nicea (325) nei cui atti non compare la firma di alcun vescovo di quella tendenza. Vedi G. Acquaviva, La Chiesa-madre di Gerusalemme, Piemme, Casale M. 2000
[2] Che però, nella principale e prima delle beatitudini, non si può assumere soltanto nell’accezione sociologica (dove si dovrebbe usare pénetes), in quanto si usa il termine ptochòi, il quale rende piuttosto il significato teologico di khanì (Is 66,2), che “indica la povertà del mendicante, costretto ad abbassarsi, a curvarsi (… ) cioè ad umiliarsi per sopravvivere” (A. Poppi, I quattro vangeli. Volume II, Messaggero, Padova 2006, p. 105). Aveva interpretato ottimamente M. Lutero, quando parlava dell’uomo incurvatus (V. Subilia, La giustificazione per fede, Paideia, Brescia 1976, p. 143).
[3] Vedi il denso numero 8 della costituzione Lumen gentium del concilio Vaticano II
[4] Ciò porta in chiaro il limite base della soteriologia del Protestantesimo: ignorare o sottovalutare la mediazione creaturale, per la quale Dio si serve della natura umana di Gesù e di una comunità umana che è “sacramento” dello Spirito per donarci la salvezza, la verità e la grazia (cfr Gv 1,17). Dovrebbe preoccupare il fatto che molte forme di un Pentecostalismo sempre più in espansione partono dal presupposto dell’inesistenza dell’istituzione.
[5] Il quale ottiene un’incredibile personale popolarità mediatica, che viene esaltata dai “progressisti”, giustamente propugnatori di una recuperata sinodalità. Ma si può osservare che l’analoga popolarità, quando ottenuta da Giovanni Paolo II, può oggi venir qualificata come cifra di “centralismo” pontificio.
[6] Un caso paradigmatico si può trovare nel voluto fraintendimento della presa di posizione del Papa sulla reazione alla pubblicazione delle vignette anti-maomettane, ricorrendo all’efficace esempio di uno la cui madre è stata insultata, che perciò stesso ha il diritto di difenderla sferrando un pugno. Era lontanissima dal Papa la giustificazione della violenza degli estremisti; egli voleva indicare che esistono dei valori che non si possono demolire per obbedire all’aberrante ”adorazione” della libertà più assoluta. Ciò richiama alla mente l’improponibile interpretazione che presenterebbe un Gesù che loda le scelte dell’amministratore “dell’ingiustizia” (= infedele, disonesto) della parabola di Lc 16,1-12. Il nostro Maestro intendeva, pur attribuendogli la qualifica base di disonesto, indicare a noi l’esempio della modalità della sua condotta (avverbio phronìmos): “accortezza nel senso di scaltrezza” (vedi G. Bertram in Grande Lessico del NT, vol. XV, col. 168s; dove  si cita - in Mt 10,16 e persino in Gen 3,1 LXX - il significato di astuzia degna dei serpenti).

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