CRISI NELLA CHIESA, O
DELLA CHIESA?
Nell’anno di grazia 2013 è cambiato qualcosa nella Chiesa cattolica, ma
siamo sicuri che non è cambiata la
Chiesa di Cristo
Papa Francesco
proviene da un ambiente del Terzo mondo, abitato da popoli poveri e sfruttati, e
in buona parte culturalmente deprivati; e sa benissimo che non si può proporre
il Vangelo a chi ha lo stomaco vuoto
Papa Francesco,
per superare un eccessivo centralismo romano e uno storico distacco dal popolo,
vuol presentare al mondo una Chiesa semplice (che assume il modello più dal
Gesù dei vangeli sinottici che dal Cristo dei rimanenti libri sacri)[1], che
si identifica col popolo (e non solo coll’ordine sacerdotale) - anzi col popolo
dei “poveri”[2]
-, più attenta alla giustizia pratica che alla verità teoretica, che guarda più
alla novità che alla tradizione, che esclude l’eccesso di legalismo (privilegia
l’amore, la misericordia, la solidarietà, l’amicizia)
Queste
preferenze possono ricondursi a un discorso più profondo: la duplice dimensione
della Chiesa[3];
nella quale si deve considerare prioritariamente l’evento di grazia,
(corpo mistico) rispetto all’istituzione umana che la comunica (organismo
sociale)[4]
Papa Francesco[5] usa
deliberatamente un linguaggio più “giornalistico” (per immagini immediate e
facilmente fissabili), a briglia sciolta, piuttosto che uno magisteriale e
teologico; e dà il primato della religiosità e dell’evangelizzazione ai
“bambini (paidìa)” di Mt 18,1-5 (non
solo “piccoli” per l’età; cfr il connesso Mt 18,6 che parla di mikròi),
alla “poveretta” di Mc 12,41-44,
a coloro che sono chiamati ptochòi nelle beatitudini. Col rischio – come dice san Paolo (1Cor
14,8) - di emettere un segnale equivocabile che mette in crisi la buona
riuscita della battaglia.
Papa Francesco
si espone così involontariamente alle false e maliziose interpretazioni[6] dei
mezzi di comunicazione sociale, i quali sono in gran parte usati da soggetti
che ignorano l’a-b-c del Cristianesimo e/o si sono prefissati di deriderlo e
combatterlo, presentando “ricette” molto gradite a chi non vuole idee chiare e
regole precise, col pericolo di attuare il motto “Penso e faccio come mi pare” (nichilismo,
agnosticismo, relativismo, amoralismo, edonismo).
Con la
conclusione della demolizione dei principi fondanti della nostra visione del
mondo, quali ad esempio la dignità della persona umana, il privilegiare la
“felicità” (o, come direbbe Francesco, la gioia) rispetto al piacere,
l’apertura verso l’alto (l’Altro), la struttura della famiglia generatrice e
formatrice, la società che non “sotterra” l’individuo.
Appendice
Appendice
Un analogo caso di voluto fraintendimento l’abbiamo avuto a carico
della famosa lezione tenuta all’università di
Ratisbona il 12 settembre 2006 da Papa Benedetto. Il quale, all’interno
di un confronto tra il pensiero cristiano – che ammette la ragionevolezza della
fede – e quello islamico – che la rifiuta - , citava un sereno dialogo avvenuto nel XIV secolo, dove si chiedeva se
fosse lecito diffondere la fede con la violenza piuttosto che con la ragione. Ciò alimentò un incendio di
proteste di ampia parte degli islamici, che avevano ristretto l’attenzione al
solo termine “violenza”; i quali non hanno evidentemente letto nulla delle
travagliate vicende della loro vera storia religiosa, militare e politica.
[1] L’accenno a questa duplice visione di Chiesa ci
richiama che, a seguito delle nuove correnti cristologiche sottolineanti
l’ebraicità di Gesù, siamo giunti alla rivalutazione del giudeocristianesimo.
Già negli Atti troviamo una corrente ecclesiale che rimane nell’ambito giudaico
(Giacomo fratello del Signore) e un’altra che si apre alla cultura ellenistica
(Paolo). La Chiesa
giudeocristiana, anche per alcune sue isolate impostazioni ereticali (es. gli
ebioniti), si eclisserà nel IV secolo, fino ad arrivare al Concilio di Nicea
(325) nei cui atti non compare la firma di alcun vescovo di quella tendenza.
Vedi G. Acquaviva, La Chiesa-madre di Gerusalemme, Piemme, Casale M. 2000
[2] Che però, nella principale e prima delle beatitudini,
non si può assumere soltanto nell’accezione sociologica (dove si dovrebbe usare
pénetes), in quanto si usa il termine
ptochòi, il quale rende piuttosto il
significato teologico di khanì (Is
66,2), che “indica la povertà del mendicante, costretto ad abbassarsi, a
curvarsi (… ) cioè ad umiliarsi per sopravvivere” (A. Poppi, I quattro vangeli. Volume II,
Messaggero, Padova 2006, p. 105). Aveva interpretato ottimamente M. Lutero,
quando parlava dell’uomo incurvatus
(V. Subilia, La giustificazione per fede,
Paideia, Brescia 1976, p. 143).
[3] Vedi il denso numero 8 della costituzione Lumen gentium del concilio Vaticano II
[4] Ciò porta in chiaro il limite base della soteriologia
del Protestantesimo: ignorare o sottovalutare la mediazione creaturale, per la
quale Dio si serve della natura umana di Gesù e di una comunità umana che è
“sacramento” dello Spirito per donarci la salvezza, la verità e la grazia (cfr
Gv 1,17). Dovrebbe preoccupare il fatto che molte forme di un Pentecostalismo
sempre più in espansione partono dal presupposto dell’inesistenza
dell’istituzione.
[5] Il quale ottiene un’incredibile personale popolarità
mediatica, che viene esaltata dai “progressisti”, giustamente propugnatori di
una recuperata sinodalità. Ma si può osservare che l’analoga popolarità, quando
ottenuta da Giovanni Paolo II, può oggi venir qualificata come cifra di
“centralismo” pontificio.
[6] Un caso paradigmatico si può trovare nel voluto
fraintendimento della presa di posizione del Papa sulla reazione alla
pubblicazione delle vignette anti-maomettane, ricorrendo all’efficace esempio
di uno la cui madre è stata insultata, che perciò stesso ha il diritto di
difenderla sferrando un pugno. Era lontanissima dal Papa la giustificazione
della violenza degli estremisti; egli voleva indicare che esistono dei valori
che non si possono demolire per obbedire all’aberrante ”adorazione” della
libertà più assoluta. Ciò richiama alla mente l’improponibile interpretazione
che presenterebbe un Gesù che loda le scelte dell’amministratore “dell’ingiustizia”
(= infedele, disonesto) della parabola di Lc 16,1-12. Il nostro Maestro
intendeva, pur attribuendogli la qualifica base di disonesto, indicare a noi
l’esempio della modalità della sua condotta (avverbio phronìmos): “accortezza nel senso di scaltrezza” (vedi G. Bertram
in Grande Lessico del NT, vol. XV,
col. 168s; dove si cita - in Mt 10,16 e
persino in Gen 3,1 LXX - il significato di astuzia degna dei serpenti).
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