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domenica 6 novembre 2016

Sul terremoto (con appendice)

Chi dobbiamo arrestare per il terremoto?

La colpa è della Cirinnà o di Adamo ed Eva? Pur sapendo che la polemica (stile vecchia apologetica) non aiuta  a vedere i punti positivi degli avversari e tantomeno quelli negativi espressi da noi, mi metto a scrivere (in fretta!) qualcosa  anch’io, su una “affaire” che  “ha scosso cielo e terra”.
I disastri naturali non sono attribuibili alla volontà perversa nostra e tantomeno a quella di Dio. Essi sono ascrivibili alla finitudine del creato, alla “non-perfezione” di questo povero mondo, destinato a scomparire; che non è “il migliore dei mondi possibili”, come ingenuamente ipotizzava il pio filosofo protestante Leibniz (giustamente irriso da quel volpone di Voltaire, che aveva discusso con lui, e meno felicemente col Rousseau, sul terremoto di Lisbona del 1755).
Nel periodo di composizione della Scrittura ebraico-cristiana, durante almeno un millennio, le teorie della retribuzione divina alla condotta morale del credente son transitate per forme alquanto diverse. Una delle quali, e la più costante nel tempo, è quella del ferreo meccanismo “peccato/castigo”, arrivando a dire (in extremis!) che la nostra contabilità con Dio è di "do ut des”, cedendo così alla dolce suasione dell'antropomorfismo.
Mi spingo fino a tentare una concentrata sintesi della forma definitiva della rivelazione di tutta la Scrittura: chi si rifiuta di aderire a (alla volontà di) Dio, più che perdere i beni di Dio (castigo materiale), perde la comunione (amicizia, alleanza) con Lui, che è Amore fedele prima di essere implacabile Giudice; e la perde in questa vita e in quella avvenire.
I peccati più gravi commessi da chi ignorava che l’ermeneutica non fa un discorso quantitativo sono all’origine delle “cantonate” che l’autorità religiosa (non solo della Chiesa cattolica) ha recepito nei secoli. Mi irritava sentire per esempio, quando ero seminarista, un buon frate che si sfiatava nel ricordare che nei vangeli per ben 17 volte si parlava di fuoco nell’inferno. Mi chiedevo (molto sottovoce….) come facesse l’anima a subire una pena in chiave termologica.
Nel pur necessario intervento romano si è fatto un caso polemico delle unioni civili e si è lasciato in ombra il compresente motivo del peccato originale, ambedue espressi dal P. Cavalcoli. Il che avrebbe richiesto un proficuo ricorso a un’illuminata (non illuministica!) ermeneutica.

NOTA
Per riparare alla lacuna dello scrivere in breve su un argomento “formidabile”, posso fare riferimento almeno ad altri post che ho inserito in questo mio blog:
-          Dov’era Dio…..? (5-9-16)
-          Sull’esistenza di Dio (22-6-16)
-          Un senso nel male (13-4-14)
-          Sul problema del male (23-12-13)

POSTILLA

Qualche lettore – forse abituato a leggere nella Bibbia versetto per versetto e attribuendolo a una “dettatura meccanica” - mi chiede di spiegare cosa s’intenda per ermeneutica. In un argomento così vasto, dirò soltanto due cose: l’ermeneutica conduce, oltre il linguaggio, a cogliere il significato che l’autore umano intendeva; e, applicando la gradualità della composizione dei testi della rivelazione, a tener conto soprattutto del passaggio tra A. e N.T. Naturalmente nessuno di noi insisterebbe nell’affermare il valore eterno di temi come la guerra santa, il kerem, l’apparente disapprovazione del culto esteriore, l’obbligatorietà della Torah, eccetera.
Soprattutto l’A.T. è sommerso da una quantità di minacce di castighi, che ci presentano un Dio vendicatore spietato: da Osea: “Guai a loro, se io li abbandono…. Ho preso a odiarli…non avrò più amore per loro” (9,10-17); da Amos: “Odio i suoi (di Samaria) palazzi” (6,8; cfr. 6,11).
Insieme a questi, per fortuna esistono testi di perdono per chi si converte: da Osea: “Non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non un uomo” (11,9); “Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò profondamente, perché la mia ira si è allontanata da loro” (14,5); da Amos: “Cercate me, il Signore, e vivrete” (5,4.6; cfr 5,14). E non trovo logico qualcuno che interpreta  l’assassinio di Nabot (1Re 21) come esempio di un mezzo cattivo per ottenere un fine buono.
            Già nell’A.T. i castighi sono presentati con la finalità medicinale: Amos 4,6-11 riporta cinque volte l’accorato dispiacere di Dio che, essendo stati ignorati altrettanti flagelli, dice: “Ma non siete ritornati a me!” . E’ definitivamente Gesù che ammansisce i due focosi fratelli che chiedevano un fulmine (Lc 9,54); che sconnette il legame essenziale intrecciato dal popolo tra peccato e castigo (Lc 13,4; Gv 9,2s).




mercoledì 22 settembre 2010

Teodicea

Dopo Tucidide e Camus, chi ha colpa della peste?
Per fortuna che c’è la Grazia
di Sergio Givone

Contingenza e colpa sono due categorie disomogenee, asimmetriche - asimmetria rovesciata, direi. Ma solo se messe l’una di fronte all’altra mostrano la loro intera portata. Il concetto di colpa appartiene all’etica solo fino a un certo punto: infatti il colpevole sa che «ne deve rispondere, la deve pagare», ma la colpa scende per così dire più a fondo, nella dimensione del religioso, alludendo a qualcosa come a un destino, mio o di tutti, che dobbiamo sopportare anche se non ne siamo consapevoli e se non lo abbiamo scelto noi. Il concetto di contingenza a sua volta si riferisce a eventi o a un insieme di eventi che sono ma potrebbero non essere (o non sono ma potrebbero essere) e dunque appartiene all’ambito del possibile e non del necessario; tuttavia questa nozione è precisamente quella che apre lo spazio di comportamenti dov’è in gioco il senso del nostro essere al mondo e cioè la possibilità di agire liberamente dove tutto sembra governato da causa ed effetto all’interno del cosiddetto «grande meccanismo universale».
Cominciamo dal concetto di colpa. Cercando di approfondire il tema alla luce del concetto di contingenza. Colpa in greco si dice amartia. Che significa: mancare il bersaglio. Fare ciò che non si voleva. Ecco: poteva accadere, anzi, poteva esser fatto qualcosa che non doveva esser fatto ma è stato fatto, e io ho un bel giustificarmi: in fondo l’ho fatto io, l’ho voluto io, anche se non lo volevo. E ho un bel dichiarare che no, non lo volevo: in realtà più o meno oscuramente volevo e addirittura «me la sono voluta», come suol dirsi, e più lo nego più aggiungo colpa (menzogna) alla colpa (errore colpevole, delitto).
Di questo concetto esiste nel mondo greco una figura, una metafora inquietante: la peste. Quella che incombe su Tebe, e di cui è 'colpevole' Edipo, che non è colpevole, eppure lo è; quella di cui narra Tucidide, e che poi Lucrezio svolgerà in versi sublimi portando l’argomento sul piano filosofico e osservando che la peste è un fatto naturale, gli dei non c’entrano, eppure sull’uomo grava un destino di morte e di annientamento che è il suo destino ­donde una impressionante processione, da Boccaccio a Defoe a Manzoni a Camus, tutti a interrogarsi su questo destino che incombe su di noi a partire dalla peste.
Ma al di là di queste concezioni romanzesche e visionarie esiste anche una vera e propria teoria della colpa, che trova la sua prima e più profonda formulazione nel famoso frammento di Anassimandro: «principio degli esseri è l’infinito… da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo». Che è come dire: hai goduto della luce del sole: paga.
Calderón dirà, e poi Schopenhauer: non c’è colpa maggiore che l’essere nati. Sullo sfondo la rottura dell’ordine cosmico (la contingenza) che apre alla responsabilità individuale per qualcosa che è di tutti.
Il cristianesimo traduce amartia con peccato: anche peccare significa mancare il bersaglio, fare quel che non si voleva o comunque non si doveva, salvo che la responsabilità non è più verso gli altri uomini (i quali «pagano l’un l’altro» secondo Anassimandro), ma verso il principio stesso, verso Dio in quanto padre di tutti. Donde l’idea della solidarietà di tutti nella colpa così come nella sofferenza. Di questo concetto la figura esemplare è quella della caduta o peccato originale; qui l’accento cade sulla libertà più che sulla fatalità, ma la trasgressione avviene non solo in una dimensione di contingenza, ma estende questa contingenza a tutti facendo tutti responsabili di tutto nei confronti di Dio. A partire dalla 'seconda natura' o natura corrotta o volontà iniqua che ci fa volere anche quel che non vogliamo. Donde il problema della predestinazione. La teologia cristiana sempre di nuovo si interroga sul fatto che siamo responsabili di ciò che non solo non abbiamo voluto e tuttavia vogliamo, ma di ciò che grava su di noi come un destino.
Il filosofo che porta questi temi al punto di massima problematicità, è Leibniz. Il quale distingue verità di ragione e verità di fatto, sostenendo che le verità di fatto in Dio coincidono con le verità di ragione, ma non per questo cessano di essere contingenti, libere, liberamente volute o non volute dagli uomini, poiché Dio può benissimo sapere che l’uomo compirà in libertà ciò che per così dire sta scritto ab aeterno. Vedi Adamo. Che decide di peccare. E una volta che ha deciso, sempre di nuovo decide così: anche all’inferno. Sia l’ottimista Leibniz sia il pessimista Anassimandro aprono al tragico. Che cosa c’è di più tragico del peccatore che «vuole» l’inferno che lo tormenta o dell’incolpevole che «paga» per il fatto d’essere venuto al mondo?

«Avvenire» del 19 settembre 2010

domenica 23 maggio 2010

Monod

Nasceva cento anni fa il grande e discusso biochimico premio Nobel per la medicina nel 1965

Monod ovvero lo scacco dello scientismo
di Maria Maggi

Un secolo fa, il 9 febbraio, nacque a Parigi Jacques Monod, biochimico di fama mondiale, nel 1965 premio Nobel per la medicina, assieme a François Jacob e André Lwoff.
Nel 1970 pubblicò l’opera Il caso e la necessità, divenuto presto un bestseller. In esso riassunse le sue idee sui principi teorici della scienza e sui rapporti tra conoscenza scientifica e valori umani.
La sua era una famiglia protestante della borghesia medio-alta francese. Dai genitori aveva ricevuto un’educazione con ampie basi culturali. Diplomato nel 1928, si laureò a Parigi in scienze naturali nel 1931, cominciando subito l’attività di ricercatore in biologia e zoologia.
Nel 1936 si recò negli Stati Uniti a perfezionarsi e rimase un anno al California Institute of Technology. Ritornò a Parigi nel 1937 e conseguì nel 1941 il dottorato in biologia. Ripresa la ricerca alla Sorbona scoprì il fenomeno della doppia crescita (diauxia) di colture batteriche in miscele differenti di zuccheri. Durante la guerra, dopo varie vicende, cominciò a lavorare all’Istituto Pasteur.
Al Pasteur effettuò molte ricerche, in collaborazione con André Lwoff, sull’Escherichia coli, un batterio che egli utilizzò poi regolarmente per i suoi esperimenti. Scoprì così che un mutante casuale del batterio era in grado di elaborare il lattosio, mentre ciò non era consentito alla specie originaria. La metabolizzazione di tale zucchero richiedeva, infatti, la produzione di un corredo enzimatico che il mutante era riuscito a generare e ad acquisire in proprio. Fu questo il presupposto di una serie di nuove scoperte sul ruolo del Dna nella trasmissione dei caratteri ereditari e delle capacità di vita e adattamento di un essere vivente. Seguirono, poi, una serie di scoperte biochimiche relative ai meccanismi delle sintesi proteiche e l’elaborazione di un nuovo quadro biologico sull’adattamento dei batteri.
Avviò, all’inizio degli anni Sessanta, una collaborazione con François Jacob con cui scoprì come il Dna, che è nel nucleo della cellula, trasferisce i suoi ordini ai ribosomi che sono fuori del nucleo, nel citoplasma, e che effettivamente fabbricano le proteine. Al centro del meccanismo c’è il cosiddetto Rna-messaggero, molecola che copia il Dna come uno stampo, porta fuori dal nucleo l’informazione genetica e consente la sintesi delle proteine.
Nel 1963, con Lwoff e Jacob, annunciò la teoria dell’operone, che portò i tre al premio Nobel due anni dopo. Si trattava di una teoria che spiegava molti fenomeni nella vita dei batteri e che al contempo forniva anche nuove linee di ricerca sulle differenze embrionali degli organismi pluricellulari. L’operone è un sistema di geni che si autoregolano in modo coordinato, con attivatori e repressori. L’organizzazione sinergica di geni differenti è tra gli aspetti basilari nella regolazione genica dei procarioti (batteri e cianobatteri).
Jacques Monod conquistò fama internazionale e nel 1967 fu nominato ordinario di Biologia Molecolare al Collège de France. Nel 1971 divenne infine direttore generale dell’Institut Pasteur. Morì di cancro a Cannes il 30 maggio 1976.
Quarant’anni fa scrisse il suo libro più famoso e discutibile: Il caso e la necessità. In esso tenta di offrire un’analisi obiettiva del mondo, proponendo un accurato riesame della teoria di Darwin sull’evoluzione delle specie. Con un’escursione dalla biologia alla filosofia, Monod pretende di spiegare perché siamo fatti così come siamo e perché agiamo in un certo modo anziché in un altro. L’analisi procede in modo logico e rigoroso, senza ricorrere a spiegazioni trascendenti sull’origine della vita. Per tale motivo quest’opera ha suscitato un vasto dibattito scientifico e filosofico negli ultimi decenni. Il testo è discorsivo e non particolarmente tecnico, per cui può essere letto anche da chi non abbia un’ampia cultura nel campo della biologia.
La tesi sostenuta da Monod è che gli organismi viventi non sono altro che macchine che contengono tutte le informazioni necessarie al proprio funzionamento. Essi non sono guidati da un fine esterno, ma da proprietà “teleonomiche” che li rendono nettamente differenti dalla materia inanimata. L’organizzazione di ogni forma vivente è determinata dal Dna che, attraverso le proteine, trasforma le informazioni in strutture e funzioni biologiche ben definite.
Essendo l’organismo vivente una macchina chiusa, un sistema incapace di ricevere istruzioni dal mondo esterno, ogni modifica al codice genetico non può venire da un’interazione con l’ambiente, ma ha origine da eventi del tutto casuali.
Tuttavia, dal momento in cui la modifica nella struttura del Dna si è verificata, essa è inevitabilmente e fedelmente riprodotta in moltissimi esemplari dal sistema di replicazione dell’organismo stesso, che opera con necessità inderogabile. Al totale indeterminismo – il caso – posto all’origine delle mutazioni, Monod associa quindi una concezione rigorosamente meccanicistica riguardante la selezione naturale, che agisce sulle mutazioni stesse, quando l’organismo si confronta concretamente con un determinato ambiente.
La teoria, non proprio originale, di Monod è che l’uomo ha dovuto nel tempo inventare miti e religioni e costruirsi sistemi filosofici per riuscire a sopravvivere, essendo un animale sociale, senza piegarsi a un mero automatismo. Il libro si basa, quindi, sulla vecchia massima di Democrito: tutto in natura è frutto del caso e della necessità e arriva a queste conclusioni sulla scorta delle osservazioni della natura che Monod ha ottenuto dalla sua attività sperimentale.
Vale qui la pena di soffermarsi su un tema centrale: la nozione di finalità in filosofia della natura e la sua riconoscibilità in ambito empirico.
Nella nozione di finalità vanno riconosciuti almeno tre livelli: l’esistenza di regolarità, la presenza di una teleologia quale semplice finalismo funzionale, e infine l’idea di finalità, come rimando a un progetto. Le prime due appartengono alla nozione di finalità in senso debole o indiretto; la terza, vi appartiene invece in senso forte. Le prime due sono oggetto di osservazione e di deduzione empirica, la terza non può mai esserlo. La completa spiegazione scientifica del motivo di regolarità e di teleonomie senza dover ricorrere necessariamente a principi finalistici “esterni”, non equivale ad aver risolto o no la necessità del ricorso a una causa di carattere intenzionale che trascenda l’universo. Ma che il mondo risponda o no a un progetto è affermazione metafisica, non scientifica: e coinvolge il terzo livello di causalità. Pertanto non può essere decisa con il solo metodo empirico. E qui la tesi di Monod viene colta in fallo.

L'articolo è stato pubblicato da "L'Osservatore Romano" del 9-2-2010

venerdì 16 aprile 2010

Interessante articolo comparso su Avvenire dell'11/04/10

Lumi Si spegne il mito
di Edgar Morin

Dopo l’esplosione del Rinascimento, il secolo dei Lumi è un momento capitale nella storia del pensiero europeo. La grande dialogica che si apre dopo il Rinascimento, vale a dire la relazione antagonista e complementare tra la fede e il dubbio, la ragione e la religione, trova il proprio centro in Pascal, uomo di ragione e di religione, uomo di fede e di dubbio. Questa grande dialogica è contraddistinta, nel secolo dei Lumi, da una preponderanza (probabilmente una egemonia) della ragione. È certo che il Rinascimento, che ha stimolato la resurrezione di una filosofia non più ancella della religione, ha ristabilito e ritrovato il tema dell’autonomia della ragione derivata dai Greci, e ha permesso lo slancio della scienza su basi empirico­razionali con Galileo, Descartes e Bacone.
Questo slancio della scienza permette di conoscere, ma separando gli oggetti di conoscenza gli uni dagli altri e separandoli dal soggetto conoscente, insomma dissolvendone la complessità. Questa ragione, che si manifesta già nelle scienze, diventerà sovrana nel corso del XVIII secolo francese. In quel momento si svilupperà la ragione in quanto ragione costruttiva delle teorie e ragione critica; la ragione critica metterà in discussione i miti, le religioni, in un modo che definirei miope, poiché essa non percepisce il contenuto umano dei miti e della religione. Questa ragione, in qualche modo, costruisce le sue teorie – in particolare teorie scientifiche – e costruisce l’idea di un universo completamente accessibile alla ragione e l’idea di una umanità guidata dalla Ragione. Questa Ragione Sovrana assume il carattere provvidenzialistico di un mito pseudo-religioso. In questa prospettiva, la scienza è produttrice dell’autentica conoscenza, vale a dire della verità. È un’epoca in cui le scienze fisiche, chimiche, biologiche spiccano il volo. S’impone allora questa idea che l’universo sarebbe completamente intelligibile (è questa intelligibilità che esprime il demone di Laplace. Egli immagina che un demone dotato di facoltà mentali superiori sarebbe capace di conoscere non solo tutti gli eventi del passato, ma anche tutti gli eventi del futuro). La Ragione guida l’umanità verso il progresso e il Progresso diventa così la legge ineluttabile della storia.
Questa idea di legge ineluttabile è formulata da Condorcet. Il futuro diventerà radioso e l’umanesimo stesso si schiuderà sotto due aspetti. Il primo aspetto è – essendo stato soppiantato Dio – considerare l’uomo come il soggetto dell’universo che deve, a tale titolo, finalmente dominare (è proprio la missione del dominio della natura che Descartes, Buffon, Marx assegnano alla scienza). Ma il secondo aspetto dell’umanesimo è l’uguale dignità di tutti gli esseri umani. Chiunque siano, essi meritano tutti il medesimo rispetto; questa teoria porta in sé non solo la libertà ma anche l’emancipazione. E il 1789, con l’espressione dei diritti dell’Uomo, il momento nascente della Rivoluzione Francese carica di promesse, può essere effettivamente definito, così come diceva Hegel, «una splendida aurora». Già con Rousseau, il tema dell’affettività (della sensibilità) diventa un tema che si oppone alla ragione e indica che essa, da sola, ha un carattere astratto e quasi disumano. Rousseau mostra a suo modo il carattere astratto della frattura tra l’umano e il naturale, attribuendo alla natura una importanza quasi materna, originaria. Voltaire, in modo sarcastico, diceva di Rousseau: «Vuole farci camminare a quattro zampe». In Rousseau c’è anche il tema secondo cui la civiltà comporta un degrado umano. Egli formula il mito dell’uomo naturale, che non suppone che esistesse una umanità idillica all’origine in una sorta di giardino dell’Eden, ma che esistono potenzialità umane che sono inibite nelle civiltà, represse nelle nostre società. Di qui un interrogativo sul progresso.
Il progresso non è concepito come una sorta di raggiungimento permanente del meglio. La domanda diventa: che cosa si perde quando si raggiunge un progresso, un progresso tecnico, un progresso materiale, un progresso urbanistico? Problema di fatto estremamente attuale nella nostra crisi di civiltà. La Rivoluzione Francese si è fondata contemporaneamente sul trionfo e sulla crisi dei Lumi. Il trionfo, con il messaggio di emancipazione del 1789. La crisi, con quel terrore, quel culto della ragione (penso a Alejo Carpentier, nel suo splendido romanzo Il secolo dei lumi , in cui ci dice che i Lumi arrivano ai Caraibi con la ghigliottina).

Quanto al Romanticismo, è in qualche modo l’esplosione di quello che è stato soffocato dai Lumi. Lo spirito di comunità, il rapporto mistico con la natura, la virtù del religioso, sono cose che effettivamente ricompaiono, con una sorta di riabilitazione del Medioevo. È anche, per alcuni versi, un sentimento profondo della natura che implica la bellezza del notturno (Edward Young aveva già scritto Le Notti, nella metà del XVIII secolo). E poi c’è la promozione della passione in rapporto alla ragione. Ma il tardo Romanticismo, o piuttosto il Romanticismo dei Romantici diventati vecchi come Hugo o Lamartine, o il Romanticismo dei giovani della seconda metà del XIX secolo, come Rimbaud, integra in sé il messaggio dei Lumi e si vota al progresso umano che costituisce l’emancipazione degli oppressi. Il socialismo, e soprattutto il pensiero di Marx, ridarà vita all’idea di progresso. Il progresso stesso che non si effettua attraverso una sorta di evoluzione lineare, ma attraverso un conflitto, la lotta di classe. Questa permetterà alla classe sfruttata e maggioritaria, il proletariato, non soltanto di affrancarsi ma di creare la società senza classi e, parallelamente, lo sviluppo delle forze produttive permetterà lo sviluppo della tecnica e l’abbondanza. La rivoluzione socialista universale è in qualche modo il mezzo, la tappa, con cui si realizzerà tale progresso. Come il mito e la religione hanno contaminato l’idea di Ragione alla fine del XVIII secolo, così si può dire che il religioso si è infiltrato in profondità nella promessa marxista, poiché in qualche modo il mondo nuovo si realizza su un vero e proprio messianesimo; dove il messia è il proletariato industriale, l’apocalisse la Rivoluzione, la promessa il trionfo della società senza classi.
Possiamo vedere anche, in seguito alla Rivoluzione francese, che la laicità repubblicana (senza entrare nella tematica rivoluzionaria) della fine del XIX secolo e dell’inizio del XX secolo riprende l’eredità dei Lumi. Gli istitutori in particolare sono i portatori di questo messaggio a fronte dei curati dei villaggi. Tale messaggio di laicità è il seguente: il progresso è portato dallo sviluppo della ragione, della scienza, dell’educazione.
Era evidente che la ragione non poteva che progredire, che la scienza e l’educazione non potevano che apportare benefici… Tutte queste prove, o piuttosto queste soluzioni, costituiscono oggi un problema. Sono terribilmente oscurate, poiché vediamo che ognuno di questi elementi che si supponeva fossero del tutto benefici rivelano oggi alcune ambivalenze, un misto di bene e di male. La scienza ha concepito anche l’arma nucleare, Hiroshima e Nagasaki. Ha creato la capacità di produrre la morte di massa dell’umanità.
Nell’ambito biologico, è capace di produrre manipolazioni genetiche che possono servire ai fini migliori come a quelli peggiori. La tecnica stessa può essere usata a fini buoni e a fini cattivi. Le forze scientifiche/tecniche/economiche incontrollate dagli esseri umani portano ugualmente verso forme di degrado irreversibile, a cominciare dal degrado della biosfera che avrà conseguenze estremamente nefaste per la sopravvivenza dell’umanità. Diciamo che il quadrimotore costituito da scienza, tecnica, economia, profitto, e che era ritenuto in grado di produrre il progresso, è oggi il propulsore della navicella spaziale Terra senza pilota che porta con sé una duplice minaccia di morte: morte della biosfera e morte nucleare. Si tratta dunque di un ribaltamento fenomenale. La scienza è certamente illuminante ma, al tempo stesso, accecante, nella misura in cui non riesce ancora a fare la sua rivoluzione, che consiste nel superare il riduzionismo e la frammentazione del reale che impongono le discipline settoriali. È incapace di restituire visioni d’insieme. Ma si può sperare effettivamente che una scienza nuova possa svilupparsi, rigenerarsi. Analogamente, si può pensare che la tecnica che ha prodotto macchine che obbediscono a una logica puramente meccanica – logica del resto che i tecnocrati e gli economisti hanno applicato all’insieme delle società – produca macchine migliori, più sensibili alle complessità, e che l’economia non sia condannata alla legge concorrenziale del neoliberismo e porti altre possibilità come il commercio equo, l’economia solidale o, semplicemente, l’economia cittadina. Ad ogni modo, il progresso come certezza è morto. Si può persino dire che siamo davanti a una grande incertezza. C’è una possibilità di progresso, ma il progresso ha sempre bisogno di essere rigenerato. Nessun progresso può avere la sicurezza di durare.
Così, per esempio, la tortura era scomparsa dai Paesi d’Europa nel XIX secolo ed è riapparsa in tutti i Paesi d’Europa nel XX secolo. E soprattutto vediamo oggi l’alleanza di due barbarie: l’antica barbarie della guerra che, con le guerre di religione, guerre di etnie, guerre di nazione, guerre civili, ritorna in forza con tutto ciò che essa implica in termini di odio, di disprezzo, di distruzione e di morte… E la barbarie tecnica, la barbarie astratta del calcolo che ignora l’umano dell’essere umano, vale a dire la sua vita, i suoi sentimenti, i suoi slanci, le sue sofferenze. Tutto ciò ci porta all’idea che bisogna superare i Lumi. Dobbiamo cercare al di là dei Lumi. Quando dico «superare», intendo nel senso hegeliano di aufheben , che vuol dire integrare ciò che è superato, integrare ciò che c’è di valido nei Lumi ma con qualcosa d’altro. Che cosa è questo al di là dei Lumi? Significa innanzitutto che bisogna riesaminare la ragione, bisogna superare la razionalità astratta, il primato del calcolo e il primato della logica astratta. Occorre liberarsi della ragione provincializzata. Occorre prendere coscienza dei mali della ragione. Occorre superare la ragione strumentale di cui parla Adorno, che è al servizio delle peggiori imprese di morte. Occorre anche superare l’idea di ragione pura, perché non esiste ragione pura, non esiste razionalità senza affettività. Occorre una dialogica tra razionalità e affettività, una ragione mitigata dall’affettività, una razionalità aperta. Occorre dare forza a questa corrente minoritaria nel mondo occidentale o europeo, quella della razionalità autocritica che, da Montaigne a Lévi-Strauss, riconosce i propri limiti e implica l’autocritica dell’Occidente. In altri termini, abbiamo bisogno di una razionalità complessa che affronti le contraddizioni e l’incertezza senza soffocarle o disintegrarle. Il che significa una rivoluzione epistemologica, una rivoluzione nella conoscenza. Dobbiamo tentare di ripudiare l’intelligenza cieca che vede soltanto frammenti separati, che è incapace di collegare le parti e il tutto, l’elemento e il suo contesto, che è incapace di concepire l’essere planetario e di cogliere il problema ecologico. Si può dire che la tragedia ecologica che è cominciata è la prima catastrofe planetaria provocata dalla carenza fondamentale del nostro modo di conoscenze e dalla ignoranza che tale modo di conoscenza comporta. È dunque il crollo della concezione luminosa della razionalità (vale a dire quella che comporta una luce accecante e dissipa le ombre con idee chiare e distinte, con la logica del determinismo) che, di per sé, ignora il disordine e il caso. Dobbiamo concepire una realtà complessa, fatta di un cocktail sempre mutevole di ordine, di disordine e di organizzazione. Occorre sapere che esiste un principio di organizzazione ma anche di disorganizzazione nell’universo con il secondo principio della termodinamica. Occorre comprendere che l’universo è complesso e comporterà sempre per il nostro spirito incertezza e contraddizione. Occorre comprendere che «è oscura la fonte stessa da dove nasce la nostra luce», come diceva san Giovanni della Croce. Occorre comprendere che sono l’imprevedibile e l’improbabile a verificarsi più spesso. Occorre sostituire il progresso determinista, il progresso necessario in tutto, vale a dire nella concezione della vita, nella concezione della storia, nella concezione dell’universo. Ci sono due esempi che dimostrano che l’imprevisto accade: in occasione delle guerre persiane, quando la piccola Atene ha saputo per ben due volte ricacciare indietro il gigantesco Impero persiano e in occasione della Seconda Guerra Mondiale, alle porte di Mosca, alla fine del 1941, quando un inverno straordinariamente precoce ha bloccato le armate naziste. Occorre abbandonare l’idea astratta dell’umano che si trova nell’umanesimo. Idea astratta perché si riduce l’uomo a homo sapiens, homo faber, homo oeconomicus. L’essere umano è anche sapiens e demens, faber e mythologicus, oeconomicus e ludens, prosaico e poetico, naturale e metanaturale. Occorre sapere che l’universalismo è diventato concreto nella concretizzazione dell’era planetaria in cui si può scoprire che tutti gli umani hanno non solo una comunità di origine, una comunità di natura attraverso le loro diversità, ma anche una comunità di destino. Allora, l’umanesimo astratto può diventare concreto. Il progresso dipende anche ormai dalla coscienza umana. Il progresso acquisito deve rigenerarsi incessantemente. La possibilità di progresso si trova in quello che Marx chiamava «l’uomo generico», nelle potenzialità inibite dalle nostre società, dalla specializzazione, dalla divisione del lavoro, dalla sclerosi… Questa idea, che si trova in Rousseau, è estremamente importante in Marx. Nelle nostre società, solo i poeti, gli artisti, gli inventori – in quanto esseri devianti – sono capaci di essere creatori e di generare qualcosa. Allora, si intravede una possibilità di andare oltre i Lumi, integrandoli. Occorre coniugare quattro vie che, fino a oggi, sono state separate. La prima via è la riforma dell’organizzazione sociale, che non può essere la sola via del progresso ma che non deve essere abbandonata. La seconda via è quella della riforma attraverso l’educazione, che deve compiersi in profondità perché l’educazione possa aiutare a far evolvere gli spiriti. La terza è la riforma di vita. E la riforma etica propriamente detta è la quarta. Dobbiamo comprendere che se c’è vero progresso, allora c’è possibilità di metamorfosi. Se c’è una società-mondo, essa sarà il prodotto di una metamorfosi, perché sarà una società di tipo nuovo e non una riproduzione gigantesca dei nostri Stati nazionali attuali. Ciò è forse improbabile, ma per tutta la vita ho sperato nell’improbabile e talvolta le mie speranze si sono concretizzate. La nostra speranza è la fiaccola nella notte: non esiste alcuna luce accecante, ci sono solo fiaccole nella notte.

«La Rivoluzione francese si fonda contemporaneamente sulla vittoria e sulla crisi dell’Illuminismo: il trionfo con la Dichiarazione dei diritti umani del 1789, il fallimento col Terrore che portò la ghigliottina fino ai Caraibi. Oggi anche gli elementi reputati del tutto benefici rivelano ambivalenze, un misto di bene e di male»


Anticipiamo in queste colonne il capitolo « Oltre i Lumi » inserito da Edgar Morin nel suo Oltre l’abisso, in uscita da Armando editore (pagine 126, euro 15,00). Nel volume il filosofo, antropologo e sociologo si interroga sul caos davanti al quale ci troviamo e sull’insufficienza delle tradizionali risorse indicate con termini quali ' riforma' e ' rivoluzione'.
Fondatore nel 1967 con Roland Barthes e Georges Friedmann di Communications, Morin è sociologo presso il Cnr francese; tra le sue opere, Amore, poesia e saggezza (1999); Educare nell’era planetaria ( con Emilio Roger Ciurana e Raul Domingo Motta, 2005); L’anno I dell’era ecologica ( 2007). La sua opera capitale è Il metodo, in sei volumi editi tra il 1977 e il 2004.

«Avvenire» dell'11 aprile 2010