domenica 6 novembre 2016

Sul terremoto (con appendice)

Chi dobbiamo arrestare per il terremoto?

La colpa è della Cirinnà o di Adamo ed Eva? Pur sapendo che la polemica (stile vecchia apologetica) non aiuta  a vedere i punti positivi degli avversari e tantomeno quelli negativi espressi da noi, mi metto a scrivere (in fretta!) qualcosa  anch’io, su una “affaire” che  “ha scosso cielo e terra”.
I disastri naturali non sono attribuibili alla volontà perversa nostra e tantomeno a quella di Dio. Essi sono ascrivibili alla finitudine del creato, alla “non-perfezione” di questo povero mondo, destinato a scomparire; che non è “il migliore dei mondi possibili”, come ingenuamente ipotizzava il pio filosofo protestante Leibniz (giustamente irriso da quel volpone di Voltaire, che aveva discusso con lui, e meno felicemente col Rousseau, sul terremoto di Lisbona del 1755).
Nel periodo di composizione della Scrittura ebraico-cristiana, durante almeno un millennio, le teorie della retribuzione divina alla condotta morale del credente son transitate per forme alquanto diverse. Una delle quali, e la più costante nel tempo, è quella del ferreo meccanismo “peccato/castigo”, arrivando a dire (in extremis!) che la nostra contabilità con Dio è di "do ut des”, cedendo così alla dolce suasione dell'antropomorfismo.
Mi spingo fino a tentare una concentrata sintesi della forma definitiva della rivelazione di tutta la Scrittura: chi si rifiuta di aderire a (alla volontà di) Dio, più che perdere i beni di Dio (castigo materiale), perde la comunione (amicizia, alleanza) con Lui, che è Amore fedele prima di essere implacabile Giudice; e la perde in questa vita e in quella avvenire.
I peccati più gravi commessi da chi ignorava che l’ermeneutica non fa un discorso quantitativo sono all’origine delle “cantonate” che l’autorità religiosa (non solo della Chiesa cattolica) ha recepito nei secoli. Mi irritava sentire per esempio, quando ero seminarista, un buon frate che si sfiatava nel ricordare che nei vangeli per ben 17 volte si parlava di fuoco nell’inferno. Mi chiedevo (molto sottovoce….) come facesse l’anima a subire una pena in chiave termologica.
Nel pur necessario intervento romano si è fatto un caso polemico delle unioni civili e si è lasciato in ombra il compresente motivo del peccato originale, ambedue espressi dal P. Cavalcoli. Il che avrebbe richiesto un proficuo ricorso a un’illuminata (non illuministica!) ermeneutica.

NOTA
Per riparare alla lacuna dello scrivere in breve su un argomento “formidabile”, posso fare riferimento almeno ad altri post che ho inserito in questo mio blog:
-          Dov’era Dio…..? (5-9-16)
-          Sull’esistenza di Dio (22-6-16)
-          Un senso nel male (13-4-14)
-          Sul problema del male (23-12-13)

POSTILLA

Qualche lettore – forse abituato a leggere nella Bibbia versetto per versetto e attribuendolo a una “dettatura meccanica” - mi chiede di spiegare cosa s’intenda per ermeneutica. In un argomento così vasto, dirò soltanto due cose: l’ermeneutica conduce, oltre il linguaggio, a cogliere il significato che l’autore umano intendeva; e, applicando la gradualità della composizione dei testi della rivelazione, a tener conto soprattutto del passaggio tra A. e N.T. Naturalmente nessuno di noi insisterebbe nell’affermare il valore eterno di temi come la guerra santa, il kerem, l’apparente disapprovazione del culto esteriore, l’obbligatorietà della Torah, eccetera.
Soprattutto l’A.T. è sommerso da una quantità di minacce di castighi, che ci presentano un Dio vendicatore spietato: da Osea: “Guai a loro, se io li abbandono…. Ho preso a odiarli…non avrò più amore per loro” (9,10-17); da Amos: “Odio i suoi (di Samaria) palazzi” (6,8; cfr. 6,11).
Insieme a questi, per fortuna esistono testi di perdono per chi si converte: da Osea: “Non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non un uomo” (11,9); “Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò profondamente, perché la mia ira si è allontanata da loro” (14,5); da Amos: “Cercate me, il Signore, e vivrete” (5,4.6; cfr 5,14). E non trovo logico qualcuno che interpreta  l’assassinio di Nabot (1Re 21) come esempio di un mezzo cattivo per ottenere un fine buono.
            Già nell’A.T. i castighi sono presentati con la finalità medicinale: Amos 4,6-11 riporta cinque volte l’accorato dispiacere di Dio che, essendo stati ignorati altrettanti flagelli, dice: “Ma non siete ritornati a me!” . E’ definitivamente Gesù che ammansisce i due focosi fratelli che chiedevano un fulmine (Lc 9,54); che sconnette il legame essenziale intrecciato dal popolo tra peccato e castigo (Lc 13,4; Gv 9,2s).




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