lunedì 24 settembre 2018

Un nuovo modo di sfidare il Nulla (II edizione)



Credo che la maggioranza degli italiani abbia sentito come un campanello di allarme per un frangente tragico la notizia della sfida blakout messa in atto il 6 settembre dal 14enne Igor Maj di Milano, e si siano accorti che abbiamo perso i contatti con una nuova visione del mondo e della vita da cui sono sommersi un numero non indifferente dei nostri adolescenti. Mi ha colpito la frase del padre del ragazzo: questi “pensano in modo lineare” e concepiscono semplicisticamente l’esistenza “come se ad una causa potesse corrispondere un solo effetto”.
Scorgiamo in falsariga l’emergere dell’ideale del Superuomo caro a Nietzsche, a D’Annunzio, ai profeti del nichilismo condito in varie salse. Alla base del progetto sta l’individualismo, con la negazione di ogni interferenza della comunità umana (che è superiore all’individuo) e di ogni Essere superiore; vi stanno pure l’assolutizzazione della libertà individuale, l’autoaffermazione identificata con la violazione di ogni limite, l’illusione di un progresso assoluto e sempre positivo (le famose sorti progressive de “La ginestra”), l’inesistenza del male soprattutto morale, l’assunzione del modello dionisiaco (la piacevole euforia, la goduria delle emozioni forti), l’incapacità di distinguere mondo virtuale da reale. Si supera il biblico “Non serviam” per acconsentire all’ “Eritis sicut dii”, come insegnava Nietzsche nei “Frammenti postumi”: “Dobbiamo conferire a noi stessi gli attributi che assegnavamo a Dio”. Si tratta in fondo dell’uomo che s’installa  al posto di Dio creatore (sfida di onnipotenza, autorealizzazione) e retribuitore (conquista della felicità che mi darebbe anche una droga come l’Lsd).
Quale dovrebbe essere la reazione della società tutta (famiglia, scuola, comunità civile e religiosa)? Ma alcune di queste comunità sono “in tutt’altre faccende affaccendate” (i politici hanno l’Europa che “rompe”, l’immigrazione che incombe) e queste quisquiglie non procurano suffragi alle prossime elezioni. E guai a chi tocca la libertà, mentre forse stiamo scivolando verso una  fatale “democratura”. A complicare la faccenda basta la considerazione che l’equilibrio morale (la capacità di decidere per il bene) è frutto di una lunga, comunitaria e non ondivaga  formazione che incontra il suo punto debole proprio nell’entusiastico ma fragilissimo periodo adolescenziale, quando abbondano le pulsioni e si mostra precario il sistema frenante. Non sarà cosa facile comunicare col nuovo mondo di quelli che, per strana connessione, si chiamano “social”: non facile il trattare per regolamentarli coi potenti imperi che li gestiscono, e neppure facile il convincere i propri figli a lasciarsi sindacare sulla recezione. Ma è nei due casi questione di vita o di morte.



Ricerca di un appoggio più consistente del Nulla

Ho letto con ammirazione i preziosi consigli che il padre Ramon del compianto Igor il 10 ottobre ha presentato a una scuola di Bergamo ammonendo i coetanei a non rimanere soli nell’uso dei social media. E mi sono chiesto se questo può essere proposto come una terapia totale per curare la mancanza di qualcosa di più importante.

Chi opera “in grande” ha bisogno di avere davanti agli occhi un ideale consistente e attraente. L’adolescente in particolare  vive esistenzialmente di un ideale che è per lui ragione di vita; di una vita non fondata essenzialmente sul sentimento, ma su un’immaginazione sostenuta dalla ragione, evitando gli ideali angusti, parziali ed esclusivamente appariscenti. Si devono decisamente considerare inadatti dei progetti che non aiutano l’adolescente a costruirsi quella pienezza di umanità che rappresenta la norma naturale della persona che è giunta al traguardo generalmente ritenuto normale. L’ideale deve anche essere raggiungibile, almeno nella quasi totalità, per evitare  la terribile situazione di una deleteria delusione totale.
Questi seri problemi cadono male in una cultura d’indipendentismo assoluto, o in orientamenti antirelazionali, antivalorici, perché antimetafisici. Nell’indecifrabile epoca postmoderna in cui viviamo è facile seguire il richiamo di sirene nuove, che ogni buon Ulisse dovrebbe decisamente  trascurare.
La bontà dell’ideale è commisurabile alla sua consonanza con la dimensione della persona, che è costitutivamente e operativamente relazionale, sullo schema Io-Tu-Noi (vedi Martin Buber). L’arrestarsi nelle scelta al solo individualismo (coi sui derivati dall’autosufficienza e autoisolamento) è la trappola mortale in cui il nostro Occidente è caduto a partire dall’Illuminismo.

Seguendo un’acuta analisi di Roberto Pertici (che si appoggia a Rod Dreher), è in atto una subdola, ma correggibile, “mutazione metafisica” (l’espressione è di Michel Houellebecq), introdotta da una duplice rivoluzione: sessuale (1960) coll’individualismo, pernicioso per la persona e la famiglia, che raggiunge ciò che è per natura relazionale; tecnologica (1980), condita di futurismo acritico, di rifiuto di ogni tradizione, di esclusione della riflessione. E mi son ricordato di aver trovato idee analoghe nel sempreverde G. K. Chesterton, o quella perla di P. Claudel che è la domanda “A che serve la vita se non per essere data?”.
Che pensare allora della nostra funzione di credenti? Per sottrarci alla desolazione dell'individualismo pensiamo che la relazione ha una multidirezionalità: è verticale e orizzontale. Detto in casa cristiana, dove la Chiesa è "comunione", chi non ha al disopra di sé un Padre che ci ama, e al nostro “parallelo” dei fratelli da amare, si è amputato di qualsiasi necessario ideale per cui veramente valga la pena di vivere. Qui e altrove.
 
                                                                       
                                                       

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