Credo che la
maggioranza degli italiani abbia sentito come un campanello di allarme per un
frangente tragico la notizia della sfida blakout messa in atto il 6 settembre
dal 14enne Igor Maj di Milano, e si siano accorti che abbiamo perso i contatti
con una nuova visione del mondo e della vita da cui sono sommersi un numero non
indifferente dei nostri adolescenti. Mi ha colpito la frase del padre del
ragazzo: questi “pensano in modo lineare” e concepiscono semplicisticamente
l’esistenza “come se ad una causa potesse corrispondere un solo effetto”.
Scorgiamo in
falsariga l’emergere dell’ideale del Superuomo caro a Nietzsche, a D’Annunzio,
ai profeti del nichilismo condito in varie salse. Alla base del progetto sta
l’individualismo, con la negazione di ogni interferenza della comunità umana
(che è superiore all’individuo) e di ogni Essere superiore; vi stanno pure l’assolutizzazione
della libertà individuale, l’autoaffermazione identificata con la violazione di
ogni limite, l’illusione di un progresso assoluto e sempre positivo (le famose
sorti progressive de “La ginestra”), l’inesistenza del male soprattutto morale,
l’assunzione del modello dionisiaco (la piacevole euforia, la goduria delle
emozioni forti), l’incapacità di distinguere mondo virtuale da reale. Si supera
il biblico “Non serviam” per acconsentire all’ “Eritis sicut dii”, come
insegnava Nietzsche nei “Frammenti postumi”: “Dobbiamo conferire a noi stessi
gli attributi che assegnavamo a Dio”. Si tratta in fondo dell’uomo che
s’installa al posto di Dio creatore
(sfida di onnipotenza, autorealizzazione) e retribuitore (conquista della
felicità che mi darebbe anche una droga come l’Lsd).
Quale dovrebbe
essere la reazione della società tutta (famiglia, scuola, comunità civile e
religiosa)? Ma alcune di queste comunità sono “in tutt’altre faccende
affaccendate” (i politici hanno l’Europa che “rompe”, l’immigrazione che
incombe) e queste quisquiglie non procurano suffragi alle prossime elezioni. E
guai a chi tocca la libertà, mentre forse stiamo scivolando verso una fatale “democratura”. A complicare la
faccenda basta la considerazione che l’equilibrio morale (la capacità di
decidere per il bene) è frutto di una lunga, comunitaria e non ondivaga formazione che incontra il suo punto debole
proprio nell’entusiastico ma fragilissimo periodo adolescenziale, quando
abbondano le pulsioni e si mostra precario il sistema frenante. Non sarà cosa
facile comunicare col nuovo mondo di quelli che, per strana connessione, si
chiamano “social”: non facile il trattare per regolamentarli coi potenti imperi
che li gestiscono, e neppure facile il convincere i propri figli a lasciarsi
sindacare sulla recezione. Ma è nei due casi questione di vita o di morte.
Ricerca di un appoggio più consistente
del Nulla
Ho letto con
ammirazione i preziosi consigli che il padre Ramon del compianto Igor il 10
ottobre ha presentato a una scuola di Bergamo ammonendo i coetanei a non
rimanere soli nell’uso dei social media.
E mi sono chiesto se questo può essere proposto come una terapia totale per
curare la mancanza di qualcosa di più importante.
Chi opera “in
grande” ha bisogno di avere davanti agli occhi un ideale consistente e attraente. L’adolescente in particolare vive esistenzialmente di un ideale che è per
lui ragione di vita; di una vita non fondata essenzialmente sul sentimento, ma
su un’immaginazione sostenuta dalla ragione, evitando gli ideali angusti,
parziali ed esclusivamente appariscenti. Si devono decisamente considerare
inadatti dei progetti che non aiutano l’adolescente a costruirsi quella
pienezza di umanità che rappresenta la norma naturale della persona che è giunta al traguardo
generalmente ritenuto normale. L’ideale deve anche essere raggiungibile, almeno
nella quasi totalità, per evitare la
terribile situazione di una deleteria delusione totale.
Questi seri
problemi cadono male in una cultura d’indipendentismo assoluto, o in
orientamenti antirelazionali, antivalorici, perché antimetafisici. Nell’indecifrabile
epoca postmoderna in cui viviamo è facile seguire il richiamo di sirene nuove,
che ogni buon Ulisse dovrebbe decisamente
trascurare.
La bontà
dell’ideale è commisurabile alla sua consonanza con la dimensione della persona,
che è costitutivamente e operativamente relazionale, sullo schema Io-Tu-Noi (vedi
Martin Buber). L’arrestarsi nelle scelta al solo individualismo (coi sui derivati dall’autosufficienza e
autoisolamento) è la trappola mortale in cui il nostro Occidente è caduto a
partire dall’Illuminismo.
Seguendo
un’acuta analisi di Roberto Pertici (che si appoggia a Rod Dreher), è in atto
una subdola, ma correggibile, “mutazione metafisica” (l’espressione è di Michel
Houellebecq), introdotta da una duplice rivoluzione: sessuale (1960) coll’individualismo, pernicioso per la persona e la
famiglia, che raggiunge ciò che è per natura relazionale; tecnologica (1980), condita
di futurismo acritico, di rifiuto di ogni tradizione, di esclusione della riflessione. E mi son ricordato di
aver trovato idee analoghe nel sempreverde G. K. Chesterton, o quella perla di
P. Claudel che è la domanda “A che serve la vita se non per essere data?”.
Che pensare
allora della nostra funzione di credenti? Per sottrarci alla desolazione dell'individualismo pensiamo che la relazione ha una multidirezionalità: è verticale e orizzontale. Detto in casa cristiana, dove la Chiesa è "comunione", chi non ha
al disopra di sé un Padre che ci ama, e al nostro “parallelo” dei fratelli da
amare, si è amputato di qualsiasi necessario ideale per cui veramente valga la
pena di vivere. Qui e altrove.
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