L’esistenza di
Dio e il male nella natura e dalla volontà dell’uomo
I – Può il Dio in cui crediamo volere il
male?
A - San Tommaso (S. Th. I, q. 2, a . 3) espone i due principali
motivi con cui un pensiero superficiale, ma (o: per questo) in ogni epoca molto
diffuso, presume di negare l’esistenza
di Dio: l’esistenza del male (Dio manda le disgrazie, e non impedisce i crimini) e l’inutilità dell’ipotesi
(gli eventi del mondo possono essere attribuiti alle cause seconde).
Ma è
sufficiente sottoporre ad un buon esame le prime due affermazioni per
attribuirle a una teologia che non è certamente cristiana: Dio non è onnipotenza assoluta ma gli dobbiamo
riconoscere una “debolezza” (1Cor 1,25), né un tiranno intollerante, mentre lo
riconosciamo come “padre di grande misericordia” (1Pt 1,3). L’ ultima
affermazione ci mette al riparo da una visione ‘categoriale’ che proclama “Non
si muove foglia che Dio non voglia” (che trova il suo ambiente di cultura nella
Bibbia ebraica e nel Corano), la quale attribuisce a Dio un intervento sempre
immediato negli eventi mondani; molto lontana da una visione ‘trascendentale’,
per cui Dio rende partecipe del suo essere e del suo agire la creatura (per il
quale motivo i genitori vengono chiamati procreatori).
Commette un
errore di questo genere chi si ostina a leggere la Bibbia senza l’ausilio del
metodo storico-critico. Portiamo solo qualche esempio: “Io faccio il bene e
provoco la sciagura, io il Signore” (Is 54,7); “Avviene forse nella città una
sventura che non sia causata dal Signore?” (Am 3,6); “Vi ho pure rifiutato la
pioggia…facevo piovere su una città e non sull’altra” (Am 4,7). Dato che siamo
in tema, dirò che sono pessimi meditatori della Bibbia coloro che la
riconoscono come Parola di Dio, ma non tengono conto che tale Parola è come un
capace contenitore che elargisce “riduttivamente” il suo liquido come nell’irrigazione
a goccia nell’arsura del Negev.(= deserto).
Il grido
“Dov’era Dio nei Lager o nei Gulag?” deve essere valutato come l’esplosione di
un dolore indicibile e di una fede ferita, ma l’unica risposta sarebbe: “Dio
era al suo posto, come Dio!”. Come era al suo posto Dio Padre quando Il Figlio
incarnato moriva su una croce, con quel grido “inarticolato” che resta per
sempre il megafono di ogni tragedia e assurdo sofferti dall’umanità.
B - Abbiamo visto così che vanno
distinte (distingue semper!) la
realtà del male-dolore nella natura infraumana (non spirituale) da quella provocata
dalla persona cosciente e libera.
I – Solo “perfectus” (pienamente in atto) è Dio: in
contrapposizione al “migliore dei mondi possibili” (del filosofo protestante
Leibniz), il creato nel quale viviamo è segnato fontalmente dal ‘male
metafisico’ che è la ‘finitudine’ creaturale (che Leibniz “prende” da
Agostino). Nel linguaggio dell’escatologia cristiana il creato è il “mondo (‘eone’) vecchio”, misto di bene e
di male, segnato tragicamente dall’inconsistenza (mataiòtes); mondo che noi possiamo migliorare, riparare, compensare
con la solidarietà. Mentre ci proiettiamo verso il “parto” del “mondo nuovo”, quello
della seconda creazione, dello Spirito di Dio (vedi Rm 8).
II – Solo Dio
è “santo” (conforme alla sua natura trascendente), e il nostro “uomo vecchio” è creato per configurarsi -
solo coll’aiuto soprannaturale della Grazia – “a immagine-somiglianza” di Elohim-elohim, che è spirito e libertà.
Ma per ottenere questo deve sapere scegliere il suo bene oggettivo secondo i
dettami di quel DNA morale che è la coscienza, e di quel messaggio “ex auditu” che è la rivelazione
cristiana. Per questo il modello unico e irripetibile (escatologico) di “uomo
nuovo” (éschatos adàm) è il Cristo risuscitato dalla potenza di Dio
Padre, nello Spirito.
II – Con quale metafisica possiamo
accostare il dato rivelato?
Da una lettura
corretta del rapporto Dio-male – ricavata con un’accorta ermeneutica delle
Scritture specialmente della prima alleanza (AT) - dipende anche il tipo della
nostra concezione “popolare” di Dio. Premettiamo che non è lecito confondere
l’affermazione oggettiva “C’è un unico Dio per tutti”, con quella “culturale”: c’è
un Dio “cristiano” (che è “padre”, che ama) e un Dio “islamico” (“che non ha
generato né è stato generato”: Corano CXII, 3; che ha messo ogni cosa a
disposizione dell’uomo: Corano XVI, 10-18)…..
A – Impostazione classica
L’idea di Dio corrente nella tradizionale
teologia cristiano-cattolica d’un tempo era più tributaria di un’irrorazione
della filosofia pagana dei greci classici che del messaggio della rivelazione
nello Spirito. Può sembrare una provocazione se qui richiamiamo le decina di qualificazioni
che il Catechismo della Dottrina
Cristiana di Pio X (1912) elencava nelle “Prime nozioni della fede cristiana”:
Dio è perfettissimo, bontà infinita, creatore dal nulla, padrone assoluto,
immenso, eterno, onnisciente, onnipotente, giustizia infinita e sapienza
infinita. Avevano dimenticato, guarda caso, l’immutabilità! Ma ogni cattolico che avesse letto il NT
poteva chiedersi, più seriamente: “Perché mancano due sostantivi essenziali:
Padre e Amore?”. Basta una lettura popolare della Bibbia ebraica e cristiana
per accorgersi che Dio crea liberamente (quindi non emana), cambia propositi,
si adira, ama (elementi che si cercava di neutralizzare definendoli troppo
facilmente antropomorfismi), ma soprattutto che in Cristo s’incarna, soffre e
muore ed è risuscitato dal Padre.
Nei troppi
secoli di un’adesione ‘meccanica’ alla tradizione, si dimenticava che
l’Ebraismo-Cristianesimo era nato in ambiente culturale quasi esclusivamente
semitico, e che nei concili ecumenici del primo millennio esso ha dovuto
indossare a fatica la pelle della cultura greco-romana. Basti ricordare che le
parole ricorrenti nelle ‘definizioni’ di quei concili (ousìa, hypòstasis, physis, pròsopon) provenivano dal linguaggio
della cultura greca.
Ma già il
pensiero ellenistico aveva prodotto il ‘paradosso’ di Epicuro a proposito
dell’eliminazione del male da parte di Dio con tre proposizioni: se Dio vuole
ma non può eliminare il male non è onnipotente; se può ma non vuole, non è
buono; se non può né vuole, è impotente e cattivo.
B – Necessità di assumere
un’ontologia emergente dal panorama culturale contemporaneo
Intendiamo
parlare di una metafisica non immutabilista, che ha superato la servitù alla
teoria fisica di Newton, capace di sintetizzare essere con agire (ricordiamo le
antiche piste parallele di Eraclito col suo “panta rei”, e di Parmenide col suo ‘essere’ uno e immutabile) come
avviene per es. non in una montagna, ma solo nell’essere bidimensionale spirituale-fisico
che è l’uomo.
Alcune
caratteristiche di questa visione sono: accettazione di una ‘storicità’ anche
nel Dio della vita (dove c’è vita e personalità non c’è storia?), dimensione
essenziale almeno paritetica di essere e agire, immanenza nel mondo quando il Dio
trascendente entra nella storia (o cediamo al mitologismo, al docetismo?),
relazionalità costitutiva in Dio (non sono ‘relazioni sostanziali’ le divine
Persone?).
C – Verifica dell’adattabilità di
questo schema all’antropologia
Dato che
l’uomo è in grado di essere “modello” di tutte le cose (Protagora), proviamo a
vedere che esso sa sfuggire al dualismo platonico-cartesiano per arrivare alla
sua comprensione come “sinolo” (insieme + tutto) di entità diverse, come
c’invitano a fare l’antropologia semitica della Bibbia (evidentemente cara
all’ebreo Spinoza) e i tentativi di San Tommaso di “catechizzare” Aristotele.
Nell’uomo,
sintesi di finito e infinito, abbiamo la sorpresa di scoprire una reciproca
trascendenza tra i due elementi del “sinolo”, la spiritualità e la corporeità.
In lui lo spirituale è immanente nel fisico, ma anche lo trasforma e lo
qualifica “umanamente”. Si dà una mutazione sostanziale tra l’esistente fisico
dei primi anni di vita e la creatività dell’essere maturo nell’intelletto,
volontà e autocoscienza. Dopo la morte, è lo spirito che assicura l’unità con
la corporeità della “nuova creazione”.
Recependo
quanto c’è di positivo nel movimento filosofico personalista (E. Mounier, M.
Buber, A. Carlini, L. Stefanini) possiamo dire che la personalità non è segno
di divisione nel tempo e di mutamento (e quindi di non immobilità), come
ritenevano gli antichi, ma elemento creante individuazione di ciò che è uno e
non consente confusioni, elemento infine segnato dalla struttura di relazione.
D – Ambiente storico-filosofico
in cui si è fatta strada una nuova dimensione non assoluta della metafisica.
Una corrente
di pensiero – bisognosa, in quanto pagana, di alcune amputazioni - che parte
dal platonismo (“anima mundi” creata
dal Demiurgo), ma che poi si dirama in molti ruscelli, a cominciare dal
neoplatonismo (Plotino: ancòra l’anima che
può trovarsi tutta-in-tutto ed è uno-e-molti, orientata verso l’intelligibile
ed ugualmente verso il mondo; che crea il mondo fisico, dal quale poter fare
ritorno all’Uno). Percorso studiato con entusiasmo nel M.E e oltre: Guglielmo di
Conches (scuola di Chartres), card. Cusano (tutte le cose sono in Dio e sono
Dio in Dio; “contrazione” di Dio nell’universo; uomo microcosmo, che è un Dio
umano, e che sta sul confine coll’eternità), J. Luria, M. Ficino, G. Bruno, T.
Campanella, B. Spinoza.
Per sfuggire
alle sabbie mobili del panteismo
(tutto è Dio!), alcuni contemporanei pensatori non lontani dal cristianesimo
suggeriscono di ricorrere al panenteismo
(il tutto è in Dio, e viceversa). Dio è trascendente, ma come creatore
immanente partecipa in continuazione (e non saltuariamente) ai processi di
sviluppo del mondo. Dio è tutto, quindi è eterno, ma non al di fuori del tempo
perché agendo in esso è immanente al mondo. Il mondo è contenuto nella
divinità, come il corpo è contenuto nella mente. E, data
l’analogia che i biblisti vedono tra lo spirito (ruach) di Dio e quello dell’uomo, non si potrebbe ipotizzare una
qualche relazione di reciproca immanenza tra i due?
San Paolo
(1Cor 15,28) ci sollecita per la strada che ci interessa rivelando che alla
fine della nostra storia “quando tutto gli sarà sottomesso, allora anche il
Figlio si sottometterà a Colui che tutto gli ha sottomesso, affinché Dio sia tutto
in ogni cosa (= pan.en-teismo)”. (Il protestante Moltmann arriva a parlare
di subordinazionismo escatologico!). Alla fine il mondo avrà esaurito la sua
missione: di visibilità delle prima creazione.
Ero titubante
nel proporre queste idee, che rimuginavo da tempo (e che ho sviluppato in molte
guise nel mio Blog), ma ho trovato un efficace sostegno e incoraggiamento nello
studiare il denso lavoro di un Autore che mi era stato utile suggeritore nel mio
approccio alle nuove religiosità e sètte, Giovanni Filoramo, Ipotesi Dio. Il divino come idea necessaria,
Il Mulino 2016.
III
– Possiamo escludere la “via a Dio” dei ragionatori?
A - E’ conveniente prendere in
visione un’obiezione che ci si può muovere: voi trattate astrattamente del Dio
dei filosofi (via rationis), mentre
si crede nel Dio vivente (via cordis). E si cita il famoso intimo
memoriale trovato dopo la morte negli indumenti di B. Pascal e pubblicato in
seguito nella collezione dei Pensieri:
“Fuoco. Dio di Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei
sapienti (…. ) Dio di Gesù Cristo (…) Non lo si trova se non tramite le vie
insegnate nel Vangelo”. Notiamo che se avesse voluto significare la via
dell’intelligenza, avrebbe detto: Luce; ma ha detto: Fuoco (che sarà richiamato
in Es 3,2) per indicare la via del vissuto e dell’azione.
L’interpretazione
allora indiscutibilmente accettata è ora superata dalla grande maggioranza
degli studiosi della Bibbia. Presentiamo in succinto alcune note sul capitolo 3
dell’Esodo, che tradotto al v. 14 con “Ego
sum qui sum” (Vulgata, come già la LXX ) costringerebbe – come si
è fatto per secoli - a seguire la traccia della metafisica assoluta aristotelica:
e tomistica (Ipsum Esse Subsistens)
- Dio si presenta così: “Sono disceso per
liberarlo (il popolo)…” (Es 3,8). Cioè è il Dio che libera, che salva.
-
Oggi si traduce Es 3,14 con “Io sono qui con
voi, per liberarvi” (Si può pure notare che Matteo 1,23 attribuisce a Cristo il
titolo “Dio con noi”)
-
Il “mi ha mandato a voi per liberarvi” ha per
soggetto “Io sono “ (v. 14) e ugualmente “il Dio dei vostri padri, il Dio di
Abramo….” (v. 15)., cioè il Dio della vostra storia precedente.
B - Nella storia della filosofia
cristiana la corrente secondaria, benché la più amata, affermata da Agostino,
da Bonaventura, da Pascal…., fa leva sull’intuizione, sull’interiorità,
sull’esperienza di vita, sul senso comune, sull’affettività, sulle esigenze
morali, sul bisogno di senso…..Ma ci permettiamo di notare che Agostino, prima
di aderire alla fede, dovette superare gli steccati delle filosofie del
paganesimo occidentale. Pur prendendo atto che si tratta della “via” seguita
dalla grande maggioranza del credenti, non possiamo persistere nel
somministrare all’uomo d’oggi più acculturato il latte di cui parlava san Paolo
(1Cor 3,2; Eb 5,12s); né condannare il cristiano comune ai complessi
d’inferiorità, riconoscendo questi di poter credere soltanto se ignora le
problematiche della ragione, che una classe di intellettuali mal formati e mal
riusciti sbandiera contro il profanum
vulgus dei credenti (lo sapete che Umberto Veronesi ha scritto un articolo
affermando che il cancro è la prova che Dio non esiste?)
In un articolo
(Avvenire 10-VIII-2016) il prof. Andrea Vaccaro c’informa che è nata una
sottospecie della miscredenza: il neuro-ateismo. E cita studi che affermano: il
pensiero analitico promuove l’ateismo, atei e agnostici sono più analitici dei
credenti. Mentre il pensiero intuitivo, olistico e creativo si addice al
livello mentale del credente. Mi vien voglia di credere che gli “esperti”
nostrani, ossequienti alle correnti di pensiero del mondo anglosassone,
confondano logica (o teoresi) scientifica con pensiero filosofico analitico.
Che possiamo rispondere a chi ci
accusa di aver abbandonato la mentalità dei semplici fedeli per adottare in
pratica le categorie del pensiero deista del razionalismo? Se si parla della
fiducia nella preghiera (cfr Mt 7,7-11, dove però “cose buone” viene sostituito
nel parallelo di Luca con “Spirito santo”), si consideri che l’espressione è
fatta per invitare all’affidamento incondizionato al Padre. Se si parla della
provvidenza divina, si deve riconoscere a Dio la capacità di programmare piani
strategici a lungo periodo. E se si parla di miracoli, si deve riconoscergli la
facoltà di derogare eccezionalmente dalle leggi generali.
IV
– Possiamo ridurre il NT alla “via dei semplici”?
Quella in cui
Dio ci ha chiamati a vivere in Cristo può essere classificata come “religione”?
Premetto questa domanda non superflua perché esistono dei cattolici che, molto
attenti alle posizioni protestanti (vedi K. Barth), ritengono che si debba prendere
in considerazione esclusivamente il moto discendente, chiamato anche
“promessa”, per cui Dio ci dà incondizionatamente la verità e la grazia,
rifiutando come apporto “pagano” o “pelagiano” la necessità della risposta
ascendente dell’uomo che crede e opera nella via di Dio. Ma sia l’AT che il NT
non si chiamano libri di un’alleanza? Quale effetto avrebbero avuto la promessa
di Dio ad Abramo, o la vocazione di Paolo, se questi due capifila non avessero
dato una risposta affermativa?
A - Ma la nostra religione è un gesuanesimo, o è un cristianesimo?
Anche ottimi
studiosi ebrei accettano molta parte di quello che ha insegnato Gesù, ma si
distanziano da noi quando facciamo partire il “tutto essenziale” dal Mistero
pasquale di Morte-Risuscitamento. Deve allora prevalere l’illusorio “dialogo”
di moda sull’affermazione della verità che capisce anche un ragazzo della
scuola media?
La lettura dei
vangeli sinottici col metodo storico-critico, individuando una certa sedimentazione
di strati e accettando Marco come più “vergine”, ci permette di abbozzare (non
certo con prove sicure e accettate da molti) il progetto di un profeta
itinerante della Galilea che annuncia la venuta vicina di un nuovo modello del
Regno di Dio, ma non per un intervento
“apocalittico” (come intendeva Giovanni il Battezzatore); ideale al quale
tesero, senza arrivarci, generazioni di ebrei e giudei. Evitando così il
pericolo di giustificare il facile ricorso di cristiani antichi o recenti che
fanno una distillazione delle frasi riportate dai sinottici, accuratamente
selezionate secondo la propria ideologia di supporto, senza tener conto delle
“contraddizioni” (Agostino: Concordia
discors)
Il progetto di
Gesù può essere stato quello di rivitalizzare la teologia giudaica nel
segno di un Regno di Dio apolitico,
religioso, realizzato tra i poveri ed emarginati, aperto anche ai peccatori e
lontani, soggetto all’unica direzione di Dio che è “padre”, nel quale si deve
porre la dedizione, l’affidamento (fede) sul modello dei bambini, come ad
esempio nella preghiera.
Nell’incomprensione
dei parenti anche prossimi, nell’abbandono dei pochi discepoli, il progetto si
concluse col rifiuto totale delle autorità religioso-politiche giudaiche, che
lo portava alla morte; mediante l’intervento della potenza dell’impero romano,
che di lì a quattro decenni schiaccerà il brandello di potenza rimasto in mano
a quelle autorità. Il progetto quindi si sciolse come neve al sole con lo
smacco di una sconfitta.
Dobbiamo comunque
prestare attenzione a paletti costituiti da frasi di ebrei moderni come queste:
“La fede di Gesù ci unisce, ma la
fede in Gesù ci divide” (Ben Chorin), “Gesù ci unisce fra ebrei e
cristiani, ma Cristo ci divide” (David Flusser).
B - Il cristianesimo nacque quando i discepoli che lo avevano abbandonato,
e soprattutto il fariseo della diaspora Sàulos
(italianizzato in Saulo, dall’ebraico Saul), lo riconobbero vivente di una
nuova vita concessagli, nella grazia dello Spirito Santo, da Dio Padre che
riconosce il Figlio e approva il suo messaggio. Di modo che, mentre il predicatore
galileo ‘annunciava’ il Regno, la
Chiesa formata di discepoli ‘proclamava’ Gesù il
Messia-Cristo e Signore (cfr At 2,36), Figlio di Dio (inteso poi sempre più
ontologicamente); che si manifesterà (‘parusia’) come giudice di tutti, a
conclusione di questa storia. Ma anche molti gesti e frasi attribuiti al Gesù
terreno riceveranno nella redazione sinottica quell’interpretazione esplicitante
e arricchente che sarà in seguito ottenuta con la prassi liturgica, con la
rimeditazione dell’AT, ma soprattutto con la luce dello Spirito della verità che
“introduce in tutta intera la verità” (cfr Gv 16,13)
Si ebbe così
una sintesi trasformatrice fra il movimento con cui il profeta di Nazaret ha
iniziato la sua missione, e la conclusione negativa della sua vicenda terrena:
il Regno di Dio è stato escatologicamente anticipato in questa storia dal Regno
di Cristo manifestato sulla Croce (Regnavit
a Ligno Deus), e la Morte
del Messia è stata trasformata in una morte di fedeltà e d’amore, che dal Dio “ricco
di amore e di fedeltà” (Es 34,6) ci ottiene la salvezza promessa.
La dottrina totale
del cristianesimo – contenuta soprattutto nella metà degli scritti del NT che
vengono in vari gradi attribuiti a san Paolo – riceverà un continuo
allargamento e approfondimento attingendo anche alla cultura filosofica dei greci;
e la Chiesa
cristiana (già da allora chiamata cattolica, cioè universale) si diffonderà in
tutto il mondo conosciuto, attingendo per la formazione delle sue strutture
alla “prudentia” pratica dell’impero
romano.
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