“Nel pensiero sta la grandezza dell’uomo”
(Pascal). Non propriamente nel calcolo.
Se Kant era
grato al filosofo Hume di averlo svegliato dal “sonno dogmatico” della metafisica
(com’era allora insegnata nelle scuole), oggi è quasi impossibile far prendere coscienza
all’uomo comune di essere soporizzato dall’assolutizzazione delle scienze
sperimentali e dalla conseguente mitologizzazione delle applicazioni tecniche. Nell’epoca
presunta felice in cui la “dea” Ragione
avrebbe fornito all’uomo moderno la risposta ad ogni domanda possibile, una gran
massa di contemporanei robotizzati non è più capace di “pensare” e si
accontenta, ammirata, di misurare e calcolare, magari con gli strumenti più
avanzati. Avviene così che di fronte alle grandi domande non ci vergogniamo di
piegarci all’opinione generale accettata dai grandi “iniziatori culturali” che
evangelizzano la comunità; cadendo sotto gl’impietosi strali del Manzoni
allorché dice: “Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del
senso comune”
Mi riaffiora
in mente un episodio accaduto nella nostra città nel gennaio 2010, quando una
universalmente osannata astronoma Margherita Hack accettò un pubblico confronto
col Vescovo di Verona mons. Zenti sulla possibilità di dimostrare l’esistenza
di Dio Si trovavano in contrasto il diffusissimo “scientismo assoluto”, non
supportato da un’adeguata filosofia della scienza, e l’espressione
dell’interiorità più profonda dell’uomo, seppur vivente nell’ambiente odierno
che è dominato dal demone del “chiasso”. La gran parte dei presenti esigeva una
prova “contattile” (verificativa) dell’esistenza di Dio, mentre giudicava il
“pensare” religioso alla stregua di una “favola bella che ieri t’illuse, che
oggi m’illude”, per esprimermi maliziosamente coi versi di un poeta che
religioso certo non era. Sarebbe come il caso di chi vuol vedere i microbi con
la lente d’ingrandimento ignorando l’uso del microscopio. Ma l’oggetto del
pensiero che più alto e profondo non può essere, Dio, si trova entrando in
punta di piedi nel proprio santuario mentale (“cuore”), non cliccando compulsivamente
sulla tastiera del calcolatore (computer) elettronico, venerato dalla
straripante mentalità anglosassone. Perché il paradosso del’uomo sta in questo:
sente esigenze costitutive che lo fanno tendere all’infinto, mentre si rende
conto che non è lui questo infinito, e che ogni suo “male essenziale” consiste
nel non poter vivere e agire oltre i limiti della sua creaturalità..
Ora svelo dove
in queste settimane ho trovato la conferma di un giudizio equo che mi ero
configurato su un incontro tra due convinti assertori di tesi, che però erano
espresse in due linguaggi distanti come sarebbero il sanscrito e il cinese. In
un denso saggio che va studiato “a
gocce”, GIOVANNI FILORAMO, Ipotesi Dio.
Il divino come idea necessaria, Il Mulino, si trovano due diversi itinerari per raggiungere Dio. Nel paragrafo “La crisi
del Dio metafisico” si trova descritto il sentiero che, sulle orme di Agostino,
Bonaventura, Pascal, parte dall’ “esperienza vitale che l’uomo ha di sé”. Ma non
si pensi che il noto esperto in storia e contenuti di filosofie e di teologie,
con questo titolo abbia messo in scacco l’affermazione di ogni forma di metafisica.
Egli infatti in altre pagine rintuzza le critiche che la ragione e le scienze
sperimentali oppongono alla possibilità stessa della religione. Si avvale di
numerosi studi. per esempio, della rivista della “Society of Christian
Philosophers” (nata nel 1977) e illustra gli apporti di una “filosofia della
religione postkantiana”, difendendone la razionalità contro le critiche del
razionalismo illuministico e del positivismo più greve. Mi chiedo allora se la Hack non conoscesse (o non
volesse citare) autori che in Inghilterra scrivevano queste cose da decenni.
La modernità
inoltre fa ricorso a una metafisica dinamica e “processuale”, consona ai
soggetti viventi, che “crescunt eundo”. Trovo quindi ancor più strano che la
scienziata non conoscesse suoi colleghi che richiamavano “in servizio permanente
effettivo” concetti come causalità, ordine e perfezione dei viventi, oppure non
vedesse l’affacciarsi di ipotesi e teorie che – superata la concezione di
una realtà inderogabilmente immobile e
statica - tentano il percorso forse praticabile di un Dio che “(interagisce)
con la storia della sua creazione”, e di un universo che reciprocamente “partecipa
della stessa creatività divina”. Questa teoria che viene chiamata “panenteismo”
(il Tutto è in Dio, ma non: il Tutto è dio!) sarebbe probabilmente accettabile
da un filosofo cristiano, qualora si ammettesse che, nella storia universale,
Dio ha una funzione “personale” simile a quella della mente, e l’universo – da Lui
distinto ma non diviso - rappresenta quello che è il corpo nella
bidimensionalità dell’uomo. Voglio vedere se, in una temperie liquidamente
pluralistica nonché irenistica, qualcuno vuole mettere la mordacchia a
quell’eminente studioso pugliese.
Antonio Contri
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