mercoledì 22 giugno 2016

Sull'esistenza di Dio

“Nel pensiero sta la grandezza dell’uomo” (Pascal). Non propriamente nel calcolo.

Se Kant era grato al filosofo Hume di averlo svegliato dal “sonno dogmatico” della metafisica (com’era allora insegnata nelle scuole), oggi è quasi impossibile far prendere coscienza all’uomo comune di essere soporizzato dall’assolutizzazione delle scienze sperimentali e dalla conseguente mitologizzazione delle applicazioni tecniche. Nell’epoca presunta felice  in cui la “dea” Ragione avrebbe fornito all’uomo moderno la risposta ad ogni domanda possibile, una gran massa di contemporanei robotizzati non è più capace di “pensare” e si accontenta, ammirata, di misurare e calcolare, magari con gli strumenti più avanzati. Avviene così che di fronte alle grandi domande non ci vergogniamo di piegarci all’opinione generale accettata dai grandi “iniziatori culturali” che evangelizzano la comunità; cadendo sotto gl’impietosi strali del Manzoni allorché dice: “Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”
Mi riaffiora in mente un episodio accaduto nella nostra città nel gennaio 2010, quando una universalmente osannata astronoma Margherita Hack accettò un pubblico confronto col Vescovo di Verona mons. Zenti sulla possibilità di dimostrare l’esistenza di Dio Si trovavano in contrasto il diffusissimo “scientismo assoluto”, non supportato da un’adeguata filosofia della scienza, e l’espressione dell’interiorità più profonda dell’uomo, seppur vivente nell’ambiente odierno che è dominato dal demone del “chiasso”. La gran parte dei presenti esigeva una prova “contattile” (verificativa) dell’esistenza di Dio, mentre giudicava il “pensare” religioso alla stregua di una “favola bella che ieri t’illuse, che oggi m’illude”, per esprimermi maliziosamente coi versi di un poeta che religioso certo non era. Sarebbe come il caso di chi vuol vedere i microbi con la lente d’ingrandimento ignorando l’uso del microscopio. Ma l’oggetto del pensiero che più alto e profondo non può essere, Dio, si trova entrando in punta di piedi nel proprio santuario mentale (“cuore”), non cliccando compulsivamente sulla tastiera del calcolatore (computer) elettronico, venerato dalla straripante mentalità anglosassone. Perché il paradosso del’uomo sta in questo: sente esigenze costitutive che lo fanno tendere all’infinto, mentre si rende conto che non è lui questo infinito, e che ogni suo “male essenziale” consiste nel non poter vivere e agire oltre i limiti della sua creaturalità..
Ora svelo dove in queste settimane ho trovato la conferma di un giudizio equo che mi ero configurato su un incontro tra due convinti assertori di tesi, che però erano espresse in due linguaggi distanti come sarebbero il sanscrito e il cinese. In un denso saggio che  va studiato “a gocce”, GIOVANNI FILORAMO, Ipotesi Dio. Il divino come idea necessaria, Il Mulino, si trovano due diversi itinerari per raggiungere Dio.  Nel paragrafo “La crisi del Dio metafisico” si trova descritto il sentiero che, sulle orme di Agostino, Bonaventura, Pascal, parte dall’ “esperienza vitale che l’uomo ha di sé”. Ma non si pensi che il noto esperto in storia e contenuti di filosofie e di teologie, con questo titolo abbia messo in scacco l’affermazione di ogni forma di metafisica. Egli infatti in altre pagine rintuzza le critiche che la ragione e le scienze sperimentali oppongono alla possibilità stessa della religione. Si avvale di numerosi studi. per esempio, della rivista della “Society of Christian Philosophers” (nata nel 1977) e illustra gli apporti di una “filosofia della religione postkantiana”, difendendone la razionalità contro le critiche del razionalismo illuministico e del positivismo più greve. Mi chiedo allora se la Hack non conoscesse (o non volesse citare) autori che in Inghilterra scrivevano queste cose da decenni.
La modernità inoltre fa ricorso a una metafisica dinamica e “processuale”, consona ai soggetti viventi, che “crescunt eundo”. Trovo quindi ancor più strano che la scienziata non conoscesse suoi colleghi che richiamavano “in servizio permanente effettivo” concetti come causalità, ordine e perfezione dei viventi, oppure non vedesse l’affacciarsi di ipotesi e teorie che – superata la concezione di una  realtà inderogabilmente immobile e statica - tentano il percorso forse praticabile di un Dio che “(interagisce) con la storia della sua creazione”, e di un universo che reciprocamente “partecipa della stessa creatività divina”. Questa teoria che viene chiamata “panenteismo” (il Tutto è in Dio, ma non: il Tutto è dio!) sarebbe probabilmente accettabile da un filosofo cristiano, qualora si ammettesse che, nella storia universale, Dio ha una funzione “personale” simile a quella della mente, e l’universo – da Lui distinto ma non diviso - rappresenta quello che è il corpo nella bidimensionalità dell’uomo. Voglio vedere se, in una temperie liquidamente pluralistica nonché irenistica, qualcuno vuole mettere la mordacchia a quell’eminente studioso pugliese.

                                                                           Antonio Contri

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