domenica 9 novembre 2014

Serve ancora la metafisica?



UNA  METAFISICA PER LA TEOLOGIA  ?


I tipi di rapporto della teologia con la filosofia sono:
- uno precedente, propedeutico: mi pongo con la sola ragione alcuni questi su Dio, come sulla sua esistenza e personalità, sua dotazione di intelletto e volontà, sua bontà…(che richiamano i cosiddetti praeambula fidei)
- uno concomitante, strutturale, proprio della teologia sistematica: che è l’esposizione del dato di fede rivelato e accettato dalla Chiesa cristiana, che ha per base un “sistema” concettuale, qual è una metafisica, logicamente ordinato, appartenente a un determinato mondo culturale.

I
Può esser utile richiamare l’etimologia di “conoscere”, da cum-nosco, cui corrisponde (syg)gignòsko = com-prendo, capisco, riconosco, sono conscio; dove è facilmente individuabile il concetto di globalità, di “agire con”. Tanto che la meta-fisica potrebbe essere interpretata come trattazione sull’hypò-stasis, che per le cose significa essenza, base, fondamento, ciò che sta sotto (sub-stantia), e per l’essere umano significa invece persona (ontologicamente). Cicerone nel “De natura deorum” I, 37 ha questo inciso: “…ut deus quem mente noscimus…nusquam prorsus (direttamente) appareat”. E Agostino nel “De fide rerum quae non videntur” I, 2 dice qualcosa di analogo (ma nell’ordine psicologico): “Chiunque tu sia, tu che non vuoi credere se non ciò che vedi, tu vedi con gli occhi  del corpo i corpi presenti, e vedi con l’animo….le tue volontà e i tuoi pensieri del momento….”

Questo rapporto fra manifestazione ed essenza è rinvenibile nella storia del pensiero: in Eracilito che vede la realtà con la lente del “panta rhei” e in Parmenide che si basa sull’essere delle cose (e siamo grati a E. Severino per avercelo, a modo suo, richiamato); lo troviamo nella prima e nella seconda navigazione di Platone. In Descatres possiamo vedere un cambio di registro fra il “cogito” e il sum” (ma noi  rimproveriamo all’iniziatore della filosofia moderna di porre a base di tutto l’azione e la conoscenza, e non l’essere).

Ogni storico del pensiero cristiano conosce il passaggio culturale che è avvenuto nella teologia cristiana dei primi secoli, quando la lettura semitica della Scrittura è stata “tradotta” in categorie greche. Per esempio basta leggere Gv 10,30 “Io e il Padre siamo uno (neutro)” - che nella mentalità semitica indica “un’unità di potenza e di azione” (R. E. Brown) – per vedere che coi primi concili trinitari (Nicea I e Costantinopoli I) passa a significare uguaglianza di ousìa (essenza, sostanza); vocabolo quest’ultimo che a Nicea viene considerato sinonimo di hypòstasis. Allargava all’impiego di altri termini la lettera sinodale inviata nel 382 dal Costantinopolitano ai vescovi occidentali; per cui Efeso (nell’approvazione della seconda lettera di Cirillo a Nestorio) userà physis (natura) e i due sinonimi hypòstasis/pròsopon (persona), cosicché nella sintesi cristologica di Calcedonia si farà ricorso a tutti i quattro termini che abbiamo indicato.
Persino il “Catechismo della dottrina cristiana” di Pio X ha risentito di questa transizione sul concetto di Dio: da “Amore fedele” nella storia dell’alleanza (così mi sembra di poter riassumere testi come Es 20,5s; 34,6s, Sal 31,6; 86,15; Gv 3,16; 1Gv 4,8.16) a “Essere perfettissimo Creatore” (linguaggio ontologico su una realtà metastorica).

II
Ma uno dei segni preoccupanti del decadimento del pensiero occidentale è il rifiuto della metafisica; e siamo felici e contenti perché la favola bella del progresso indefinito ci ha regalato la bolla di sapone del “pensiero debole” o la colossale trappola del “pensiero unico”. Ciò è dovuto a un’indebita riduzione del significato di questa parte della filosofia, operata seguendo il pensiero positivistico-materialistico proprio dello scientismo, o del sensismo, o dell’empirismo, o del pragmatismo, che conduce ad affermare: è reale solo ciò che è controllabile, misurabile, visibile, divisibile in parti.
Cerchiamo quindi di rivisitare le tappe storiche per le quali si è giunti a classificare la metafisica tra gli strumenti inconsistenti, vacui, inutili, e perciò superati; oppure tra le disquisizioni che formano la gioia dei superdotti, ma sfuggono alla comprensione dell’uomo comune. Come si è giunti a ridurre l’ambito del conoscere definito “scientifico” alla verifica dell’osservazione sensitiva, del calcolo matematico?

A - Possiamo prendere come un inizio indicativo un pensiero di Leonardo, che non nega l’anima, ma lascia gli incontrollabili discorsi su di essa alla “mente de li frati, li quali per ispirazione sanno tutti li segreti”. Analogamente Telesio ritiene che l’anima non serva a spiegare gli aspetti naturali (fisici) dell’uomo, ma solo quelli che trascendono la sua naturalità.
Sono individuabili tre gradini nella storia della rivoluzione culturale della modernità.
- Il primo livello è quello della rivoluzione scientifica, che annovera i grandi “sperimentatori” e scopritori Copernico, Keplero, Brahe, Galileo, Newton.
- Il ponte tra questo livello e quello seguente è rappresentato da F. Bacone, che dà una prima lettura filosofica della rivoluzione scientifica. Secondo lui il sapere deve produrre frutti nella pratica, deve essere utile; l’uomo è il ministro della natura nelle sue varie forme; le elucubrazioni (filosofiche) dei Greci sono equiparabili al pensiero infantile.
- Con Cartesio si giunge al livello della rivoluzione filosofica. Il pensiero dà la conoscenza delle realtà immediatamente presenti nella coscienza di sé, cioè degli oggetti (res extensa)  e dell’io che li conosce (res cogitans). Attribuisco a me stesso (autocoscienza) la conoscenza dell’oggetto. Quindi l’io è qualcosa, è una realtà. Ma il pensatore francese cerca invano di superare la contrapposizione tra le due realtà indicando nella ghiandola pineale la sede dell’io.
Lo schema di questa dichiarazione cartesiana di aporia si ritroverà analogo in Lessing, per il quale s’interpone un fossato invalicabile tra le verità “storiche” e i concetti metafisici e morali; idea che spianerà la strada alla rivoluzione kantiana.

Ritengo possibile una duplice lettura del “Cogito ergo sum
1 – Cogito: io agisco (azione)
      Sum:     quindi esisto (agente); per cui si trova l’essere
2 – Cogito: agisco comprendendo
      Sum:   quindi sono persona; per cui si qualifica l’essere, come a dire che conosco cosa fa il soggetto ma anche cos’è il soggetto.
Cosicché dallo strumento di produzione di un effetto possiamo riconoscere la natura del soggetto, come nel caso della costruzione di un tipo di diga da parte del castoro, e della costruzione di un altro tipo da parte dell’ingegnere. Così pure vediamo che l’uomo produce liberamente una cultura, mentre lo scimpanzé vive seguendo col peso del determinismo la traccia dei suoi istinti. Per portare un altro esempio, distinguiamo una quercia da una pianticella di frumento dai diversi “frutti” che esse producono.

Osserviamo un’altra derivazione del pensiero di Cartesio: imboccando una via in discesa, il pensiero moderno a lungo termine poteva giungere, contro le intenzioni del pensatore francese, al rischio d’impaludarsi nell’appiattimento di una visione assolutistica che possiamo chiamare egomonismo, cioè alla comprensione dell’individuo uomo come chiuso ad ogni relazionalità che non sia controllabile “sperimentalmente”
a) Chiusura che può ostruire la via orizzontale e diventare egoismo. In questo capoverso, come nel prossimo, richiamiamo qualche citazione dalla Bibbia ebraica:
“Il Signore disse a Caino: Dov’è Abele, tuo fratello? Egli rispose: Non lo so; sono forse io il custode di mio fratello?” (Gen 4,9)
“Essi calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri….”; “Ascoltate questo voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese…..” (Am 2,7; 8,4)
“Quale diritto avete di schiacciare il mio popolo, di pestare la faccia ai poveri?…” (Is 3,15)
E’ escluso quindi il dovere di accettare norme societarie, di esercitare la giustizia…
b) Chiusura che può ostruire la via verticale e diventare immanentismo
“Tu pensavi nel tuo cuore: Salirò in cielo, sopra le stelle di Dio….nella vera dimora divina….; mi farò uguale all’Altissimo” (Is 14,13s)
“Poiché il tuo cuore si è insuperbito e hai detto: Io sono come un dio…hai reso il tuo cuore come quello di Dio” (Ez 28,2)
E’ escluso quindi il dovere di accettare una norma superiore, di dedicarsi alla preghiera…

B - Da Pascal ci viene proposto il duplice piano dello spirito di geometria (o matematico) che riguarda le cose tangibili, e lo spirito di “finesse”; parola che, secondo i commentatori (P. Serini, D. Antiseri….), si può intendere come “intuizione”. E giustamente, perché il grande filosofo-scienziato ritiene che i principi “geometrici” siano “netti”, “tangibili” e “grossolani”, mentre le realtà scientificamente indimostrabili sono accessibili a uno spirito che semplicemente contempla con occhio sereno i grandi principi: “Nello spirito di finezza i principi sono di uso comune e sotto gli occhi di tutti (…) Li si vede appena; più che vederli si sentono; si fa una fatica infinita a farli sentire a chi non li sente da sé”, (e si raggiungono) “senza poterli dimostrare come in geometria”. Le conoscenze intuitive sono più semplici non perché infantili, ma perché percepibili a tutti coloro che le vogliono accettare. Quelle “scientifiche” non sono più sicure, ma esigono un percorso  di ricerca più complicato.

C - In linea con affermazioni di Cartesio e di Pascal, un pensiero di Kant – non ancora ammaliato dalla sua conquista “copernicana” - sull’esistenza di Dio, che pochi citano, è questo: la Provvidenza  non ha voluto legare una conoscenza così importante a sottili ragionamenti, ma “alla naturale conoscenza degli uomini”.
E’ necessario rivedere la troppo facilmente accettata lettura parziale della teoria di Kant sulla conoscenza: il noumeno (“Io penso”) deve esistere, ma non lo comprendo né posso dimostrarlo “scientificamente”, cioè con gli strumenti della “ragion pura”. Egli voleva trovare un fondamento scientifico (cioè di scienza della natura) alla metafisica, della quale confessava di essere irresistibilmente innamorato.
Il noto studioso di storia della filosofia Dario Antiseri individua il punto di partenza del pensiero “riduttivo” kantiano “nel radicato pregiudizio ‘scientistico’ che lo portava  ad ammettere come ‘conoscenza’ pleno iure solo quella di tipo matematico-geometrico e quella di tipo galileiano-newtoniano”. E avverte che in campo morale il “noumeno” diviene accessibile alla ragione pratica, cui il filosofo attribuiva decisamente il primato sulla ragione pura.
La conclusione della “Critica della ragion pratica” ci riserva un gioiello: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione….: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me….Il primo comincia dal luogo che io occupo nel mondo sensibile esterno….La seconda comincia dalla mia invisibile identità, la personalità….”. Quindi voler dare una deterministica regola al mondo dello spirito non conduce a conferirgli solidità, ma a restringere l’apertura verso l’infinito di un essere personale, dotato di libertà e realizzantesi nella storia. Lo aveva già affermato Pascal in un pensiero scultoreo: “L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura, ma una canna che pensa”.
In questo ripensamento della critica kantiana mi sento confortato da L. Messinese che, riferendo un pensiero del filosofo K. Jaspers, afferma: “criticando la possibilità di una ‘metafisica come scienza’ Kant, ha finalmente reso possibile la meta-fisica  come orientamento del pensiero a ciò che trascende gli oggetti della conoscenza empirica e scientifica”.
Noi quindi, superato il riduzionismo kantiano, vediamo che la conoscenza sovrasensibile non è data dall’imposizione di uno schema prefissato a priori (una specie di maschera di ferro) su quella sensibile, ma da una lettura profonda di quest’ultima realtà. Contro il tentativo di ridurre il principio di causalità a una categoria imposta dal nostro intelletto, possiamo portare l’esempio del mattutino sorgere del sole: nessuno dirà che questo è la causa (piuttosto che l’occasione) dell’apertura delle finestre delle case.

D – Con gli ultimi epigoni dell’Illuminismo “a senso unico” immanentistico siamo passati a un altro modo di pensare. Se ammettiamo, già seguendo Cartesio, che la filosofia non è più scienza dell’essere, bensì gnoseologia, dottrina della conoscenza, approviamo la tesi che vede nell’uomo il “creatore” di tutta la realtà. Con la conseguenza morale del rifiuto di ogni norma etica o giuridica che comprima la libertà individuale, di modo che ogni desiderio diventa un diritto. Siamo caduti così nel pensiero unico – vera “dittatura del relativismo” (Joseph Ratzinger) e dell’individualismo - che non si sente obbligato a giustificarsi né tollera nessuna diversa visone della realtà (Paola Ricci Sindoni).

III
Nella realtà dobbiamo riconoscere una duplice dimensione:
- la sua manifestazione, che ce la rende conoscibile (aspetto epifanico, dinamico),
- e il dato base, senza del quale non si avrebbe quella manifestazione (aspetto ontologico, statico). Cosicché anche oggi possiamo parlare di una metafisica, purché sia dinamica, qual è una comprensione profonda, anche storica, della realtà; ossia, come dice il filosofo A. Carlini, sostituire una metafisica critica ad una dogmatica.
Nel momento epifanico, giunge ai nostri sensi l’attività dell’esistente e ci viene conferita la possibilità di procedere più oltre ponendo la domanda della sua essenza; nel momento ontologico individuiamo - con strumenti che procedono oltre quelli della dimostrabilità “matematica” - la struttura di fondo, il grado di essere, la qualifica di genere dell’esistente, l’essenza, la base per cui possiamo risalire alla dinamica.. Nel primo siamo alla ricerca dell’esistente, nel secondo troviamo l’ente. Nel primo movimento, analitico, prendiamo contatto con un oggetto o fatto esterni al soggetto conoscente, chiedendoci: che fa?, come agisce? cosa produce? Nel secondo movimento, sintetico, interpretiamo i dati che ci sono stati forniti, rispondendo alla domanda: cos’è? chi è? Con questo ci apriamo alla domanda dell’ermeneutica: che senso ha?

            Quindi dobbiamo operare un sintesi
- tra il concetto di metafisica regalatoci dai greci, cioè il concetto di una natura universale e immutabile, base unica della considerazione della realtà,
- e l’apporto migliore del pensiero moderno, che tiene conto della singolarità delle persone (evitando però l’estremizzazione che conduce all’individualismo e soggettivismo) e della pluralità delle culture (evitando il rischio di cadere nel relativismo e storicismo).

Queste riflessioni non sono vacue e inutili, perché ci fanno entrare nella vera comprensione globale della realtà (“Il vero è l’intero” diceva Hegel). E’ proprio il momento in cui vediamo la realtà (come nel caso di un filmato) che ci fa conoscere la consistenza dell’oggetto che le è sottostante (come nel caso del “fermo immagine”).

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