DIO, L’UOMO E IL MALE
Due risposte della Bibbia
Si Deus, unde malum? E’ questo il problema più conturbante per il
credente, tanto che nella Somma Teologica di San Tommaso si trova come una
delle due obiezioni contro l’esistenza di Dio (I, 2, 3).
PRINCIPI DI METODO E
DI CONTENUTI
A – Gradualità
Quando si dice
“storia della salvezza” si intende sia la successione degli eventi salvifici
nei secoli, sia il progresso nella comprensione di questi che ci viene offerta
dai vari libri della Scrittura della prima e della definitiva alleanza. Ma
anche all’interno di un libro si possono trovare più livelli teologici. Esempio: Siccome
leggeremo il cuore del libro di Giobbe, vediamo che nei cc. 3-31 si esprime la
teologia tradizionale dei tre amici; nei cc. 38-42 Dio si rivela nella sua vera
luce nello scenario grandioso di una teofania.
Solo chi
conserva ancora una inveterata comprensione della Bibbia come “dettatura
meccanica” da parte di Dio può assumere le mille frasi ivi contenute
prescindendo dalle varie culture, dai vari contesti, dalle varie epoche; senza
accorgersi delle mille affermazioni contrastanti e contraddittorie che vi si
trovano. Questo metodo fondamentalista e letteralista è la negazione
dell’ermeneutica e conduce ad eccessi deplorevoli come per es. al rifiuto
dell’AT proclamato nel II secolo da Marcione e alla condanna di Galilei nel
XVII. La Bibbia
non è un monoblocco di marmo che si estrae dalle montagne di Carrara, ma un
albero vivente con le sue molte ramificazioni e stagioni. Anzi dobbiamo dire
che la “verità” più completa si coglie solo alla fine di ciascun percorso; come
la storia globale di un uomo è leggibile
alla sua conclusione. Non dobbiamo quindi assolutizzare gli inizi, la creazione
primordiale, ma orientarci all’éschaton,
la creazione nuova e definitiva.
B – Due teologie nella Genesi
Nei primi
capitoli della Genesi troviamo due “teologie” della creazione complementari, ma
diverse.
All’inizio
troviamo il primo capitolo (fonte P), scritto per reagire alla forte tentazione
che subivano gli ebrei dopo aver visto lo splendore dei culti idolatrici; dove
si rende conto della distanza abissale tra tutto il creato e Dio. E’ un
messaggio di ottimismo: la creazione è tutta buona.
Il “racconto” della formazione dell’uomo e della
coppia, e del cosiddetto peccato originale (Gen 2-3: fonte J), oltre a non
essere il testo unico della Scrittura che ricerca le origini del male (vedi
sotto Rm 7-8), deve essere riposizionato in due sensi:
- non si può collocare alle origini della rivelazione biblica, e quindi all’inizio della storia, essendo un testo “sapienziale” (classificato dai più come “pre-istoria”)
- deve essere preso in chiave simbolico esistenziale (Gozzelino) come meditazione sull’esistenza concreta di ogni essere umano (l’ebraico adàm significa: uomo), nella duplice dimensione positiva-negativa.
Ciò si fa non
per inchinarci alle scoperte delle scienze fisiche e umane, ma per uno sviluppo
dei metodi ermeneutici biblici adottati oggi anche dai cattolici, che così
devono rileggere le posizioni della tradizione e del magistero dei pastori. Ciò
fa comprendere qual è l’essenza del peccato che può essere oggetto di
tentazione per ogni uomo non credente di ogni tempo: presumere di sostituirsi
in tutto e per tutto a Dio (antropolatria).
E’ utile
notare la mancanza nella predicazione di Gesù (e in quasi tutto il resto del
NT) di citazioni esplicite di questo “racconto” nella sua dimensione
amartologica. (concernente l’hamartìa,
il peccato, e hamartàno, pecco).
Così
rispondiamo al significativo dilemma: la storia della salvezza trova il suo
centro nella salvezza portata da Cristo, o nel peccato commesso dall’uomo? La
tradizione patristica prima di Agostino privilegiava la risposta
dinamico-escatologica, nei confronti con quella statico-protologica seguita poi
da tutta la chiesa latina (Gozzelino).
C – Il linguaggio del mito [1]
La storia
della salvezza - che è l’oggetto primario della comunicazione della rivelazione
di Dio all’uomo - è costituita da due elementi: fatti e discorsi. Come nel
racconto dell’esodo dall’Egitto e nei discorsi di Mosè (Pentateuco); come nel
contenuto dei vangeli, “ciò che Gesù fece e insegnò” (At 1,1). Di questi
elementi viene comunicato il contenuto (messaggio) attraverso una forma
(linguaggio).
Due sono i
modi di esprimere la realtà:
- Per la cultura orientale (per
esempio quella dei semiti) la realtà profonda è più grande del nostro
intelletto e viene espressa con azioni lette in chiave simbolica (come nelle
parabole); ciò consente di valutare senza limiti di tempo la realtà della vita
individuale e della storia
- La cultura mediterranea (per
esempio quella dei greci) ritiene di poter racchiudere la realtà nei concetti
elaborati dalla nostra mente (come nella tematizzazione ontologica); ciò
comporta un’astrazione dalla vita e dalla storia.
Quindi “mito”
per gli orientali è un racconto sapienziale utile per comunicare una realtà
perenne e universale così profonda da non essere esauribile dall’intelletto
umano (nel linguaggio biblico: mystèrion);
per noi occidentali - se seguiamo la diffusa concezione proveniente dal
pensiero illuministico-positivista - è un racconto fittizio, privo di nesso con
la realtà, come nelle fiabe. Nel primo caso abbiamo il discorso di un antico “filosofo”
che pensa (benché in linguaggio simbolico), nel secondo le fantasticherie di un
moderno romanziere.
Aggiungiamo
alcune esemplificazioni:
- Per gli orientali Dio “consegue
sempre il fine” che vuol ottenere; per noi si esprime lo stesso concetto
scrivendo che egli è “onnipotente” per essenza
- “In principio era…il dabar (che in ebraico significa
azione-evento e parola): a) …l’azione di Dio (Gen 1,1: creò), come sembra abbia
inteso il poeta Goethe nel Faust: “In principio era l’Azione”; b) …il Lògos di Dio (Gv 1,1 tenendo conto che
il linguaggio qui è mutuato dalla filosofia), come il filosofo Fichte intende
l’espressione del connazionale poeta.
D - Qualche tratto della
“teologia” del male.
1 - Col concetto di “male”
possiamo intendere due cose:
-
i limiti dell’essere non assoluto, cioè dolore,
sofferenza e morte (male fisico)
-
il disordine morale dell’essere libero, cioè il peccato
(male morale)
Un problema non facile sorge
quando si cerca di individuare il rapporto causale tra le due categorie.
Fatti negativi
e condizioni di esistenza dell’uomo, del popolo ebraico e del credente
definibili come “male” possono essere: una battaglia perduta, un’invasione
subita, la deportazione, il massacro della popolazione, una pestilenza; oppure
una malattia, disgrazie e discordie famigliari, impoverimento e miseria, odio e
calunnia, morte.
Il problema
del male nel creato, nell’umanità, nel singolo uomo o credente ci conduce a
chiederci:
-
La creazione è un’opera sbagliata, abortita?
-
Il Dio dell’alleanza è sempre fedele alle sue promesse?
-
La retribuzione dei buoni o dei cattivi ci fa pensare
alla bontà e giustizia di Dio?
-
Quale valore assumono la condotta religiosa e morale di
un individuo, e la sua preghiera?
-
Quale concetto di Dio e della salvezza poniamo come
base per la soluzione di questi problemi?
E’ questo il campo affine alle domande
della teodicea.
2 - La questione “a chi o a che
cosa deve essere imputato il male” ha ricevuto più risposte:
a)
L’archeo- o neo-ateista (o agnostico) risponde: a Dio;
il quale, se esiste, deve essere considerato cattivo, o impotente (vedi il
famoso paradosso di Epicuro); ma ciò non tiene conto che il male può provenire
da libere scelte umane
b)
Il superstizioso risponde senza controllo logico: il
male viene dal destino, da elementi “sovra-umani” (astri, magia, ecc.)
c)
Il lettore tradizionale della Scrittura (Gen 3, ma
anche di altri testi come Sapienza), per non dover attribuirlo a Dio, risponde:
alla ribellione umana (peccato) contro Dio; ma ciò non rende ragione dei mali
che non provengono da una scelta libera
d)
Secondo un metodo ermeneutico di leggere la Scrittura, il male è
attribuibile al “limite” della creatura; per cui i tre mali emblematici
“dolore, peccato, morte” vengono fatti risalire primariamente alla nostra “non
perfezione” creaturale o – se definisco la libertà come la capacità di
realizzarsi con scelte secondo la propria natura - alla nostra decisione
moralmente negativa. Quindi la sofferenza non è primariamente un castigo,
conseguenza della colpa.
LE DUE RISPOSTE DELLA
PAROLA DI DIO
I due eventi
che suddividono la storia della salvezza tematizzata nell’AT sono l’esodo
trionfale dall’Egitto – nel quale alcune tribù semitiche sono costituite in
popolo e Popolo di Dio - e l’esperienza amara dell’esilio babilonese.
Quest’ultima è stata portatrice di una benefica revisione della concezione di
Dio, di Popolo, di salvezza, di fede, di credente, di origine del male.
Prima risposta: teologia del pre-esilio
La tesi più
popolare, corroborata da un esame che si fa “a prima vista”, molto utilizzata
in sede morale ed esortativa dice: i mali sono causati dalla cattiva condotta
dell’uomo e vengono mandati da Dio per nostro ammonimento e come invito alla
conversione.
A - Prima teologia del libro di Giobbe (soprattutto cc. 3-31) [2]
Sono
presentati drammaticamente i dialoghi e il tormento interiore di Giobbe. Di
fronte alle contestazioni dei tre amici
si trova stretto in un’alternativa: o ammettere di essere colpevole, e quindi giustamente
punibile, o accusare il suo Dio di non bontà, non fedeltà, non giustizia. La
sua ribellione (che poi verrà corretta) si
può leggere come un errore morale.
Il suo Dio è
paragonabile a un commerciante che tratta coi clienti. La dottrina comune – che
pervade molti testi del Pentateuco, dei libri storici e dei Salmi - infatti propendeva
per la “teologia della retribuzione” [3], del
“do ut des”, in cui Dio si sente
obbligato a promettere beni, conquiste e protezione al popolo o al singolo che
gli è fedele e osserva la
Torà. Benché il profeta abbia anche un non chiaro
presentimento che verrà (in un’altra vita?) un “riscattatore” a rendergli
giustizia.
Giobbe alla
conclusione del suo percorso di purificazione della fede riconoscerà il
fallimento della sapienza umana nel suo tentativo disperato di difendere la
giustizia di Dio nei confronti della sofferenza del giusto. Vedrà che non esiste
parallelismo automatico tra osservanza morale e retribuzione di Dio.
B -
Genesi 2-3 [4]
1 - Il testo si dilunga nel
mettere in evidenza gli inconvenienti, lacune e deficienze che connotano
l’esistenza dell’uomo: nascita dalla polvere del suolo, necessità della fatica
(lavoro), precarietà dell’esistenza terrena e termine della medesima, bisogno
di relazionarsi coi propri simili, bisogno dei propri simili per riprodursi. In
particolare per la donna: dolori nel parto e soggezione schiavizzante al
proprio partner.
In un contesto
di retribuzione, i limiti esistenziali sono fatti risalire a una colpa morale,
seguita da analoghi castighi.
L’uomo (adàm) è un vassallo in contestazione
contro il suo sovrano; è tentato di scrollarsi di dosso i limiti disobbedendo a
Dio (errore morale), arrogandosi di essere pari a lui. Con la
conseguenza che egli perde la comunione-comunicazione con Dio.
2 - Troviamo l’albero come
elemento fondamentale del simbolo:
- Due alberi: 2,9
- Un albero: 3,3 (in mezzo al
giardino).6.11s.17
- Albero della conoscenza: 2,9.17
- Albero della vita: 2,9 (in
mezzo al giardino); 3,22.24
E’
interpretabile questo come un unico albero significante due “riserve” che Dio
si attribuisce:
- quale luce di Verità, dotato di “conoscenza del bene e del male” (cioè del possesso di tutta la verità-realtà, in particolare di quella morale);
- quale fonte della Vita, dotato di una esistenza che non ha fine (“albero della vita”).
Esiste quindi
un profondo nesso tra il peccato e la morte, intuibile sotto la scambiabilità
tra il primo e il secondo albero.
L’uomo in
prometeica opposizione a Dio,
- varca il confine della Verità, attribuendosi l’autonomia conoscitiva-morale
- benché gli sia interdetto il possesso della Vita (cfr Gen 3,22).
3 - Nell’eschaton l’uomo nuovo, creato sul modello del Cristo risorto - che
è Verità e Vita - sarà dotato per grazia del massimo di Verità e di Vita che
sia possibile ad una creatura che riconosce di essere figlio di Dio, benché
soltanto adottivo nello Spirito: filus in
Filio. Perché Cristo, uomo preesistente alla creazione di tutto [5], è il
prototipo di ogni uomo. A lui come “primogenito dei risuscitati” ognuno è
destinato finalmente a conformarsi (Rm 8,29; 1Cor 15,49; Fil 3,21; Col
1,15-18).
L’uomo
peccatore che aveva preteso di “essere come Dio” verrà fatto “partecipe della
natura divina” (2Pt 1,4), dotato di visione beatifica e di vita immortale.
NOTA
1 – L’insinuazione del serpente (3,5: “Sarete come elohìm” (parola che si può intendere: Dio, dèi, esseri divini; cfr
3,22) ci introduce a comprendere dove si colloca l’essenza del peccato di ogni
adàm: nel non riconoscere la
giusta relazione con l’altro che ci sta sopra, alla pari, al di sotto:
-
Si abbassa Dio creatore e normatore a livello della creatura, o lo si riduce a
insignificanza
- Si
riducono gli altri uomini a oggetti strumentalizzabili, o complici dei nostri
misfatti
-
Si misconosce e si sfrutta egoisticamente il mondo infraumano, o lo si erige a
idolo.
NOTA
2 – Collocando l’evento tentazione-peccato alle origini della storia umana
(ordine cronologico), l’autore biblico ha inteso insegnare che la lotta tra il
bene e il male sta alle radici della creatura libera (ordine ontologico-esistenziale).
Dal testo classico di Gen 3,15 apprendiamo che
-
il Signore Dio
creatore metterà un’ostilità tra il serpente e la donna e tra le rispettive
discendenze;
-
lungo la storia
la discendenza della donna colpirà il serpente alla testa, e il serpente
colpirà (uguale verbo rispetto al precedente) al tallone la discendenza della
donna.
Di
modo che la lotta avrà una conclusione ottimistica, ma durerà per tutto il
corso della storia. Aveva intuito bene Dostoevskij affermando che la lotta tra
Satana e Dio avviene quotidianamente nel campo di battaglia che è il cuore di
ogni uomo.
NOTA
3 – L’espressione della tradizione spirituale cristiana che descrive il peccato
come “morte (o malattia) dell’anima” può forse farci comprendere il nesso di
analogicità che unisce queste due realtà:
-
Il peccato è l’interruzione delle relazioni con Dio e coi fratelli nell’ordine
morale
-
La morte è l'interruzione delle relazioni del “sinolo” fisico-spirituale col
“mondo” [6] e
all’interno del sinolo stesso.
C - Rm 5,12-21
A San Paolo
occorreva un chiaro esempio di applicazione del principio semitico della
“personalità corporativa” per mostrare che in Cristo capo tutti siamo stati
salvati.
A questo punto
della sua lettera più importante egli esprime un’intelligenza della salvezza in
Cristo come riparazione del peccato. Fa questo usando una serie di
paralleli antitetici ricavati dalla meditazione sul “racconto” genesiaco:
a) peccato, morte, caduta,
giudizio, disobbedienza
b) grazia, dono, giustificazione,
obbedienza.
Applica poi
con decisione una figura di comparazione: tra abbondanza della caduta e
sovrabbondanza della grazia.
Nella Chiesa
latina il discorso è stato cristallizzato dal pensiero pessimistico - che passò
per tre diverse e tormentate soluzioni (Gozzelino) - del grande
Sant’Agostino;.il quale si fidava della traduzione “in quo omnes peccaverunt” di Rm 5,12. Poi è stato ulteriormente
estremizzato da Martin Lutero, con le affermazioni dialetticamente contrapposte
del concilio di Trento. Nello stesso versetto si trova “per peccatum mors”, che quasi tutti gli studiosi interpretano come
detto della morte spirituale.
La Chiesa greca in
soteriologia ha invece seguito la traccia ottimistica della divinizzazione (theopòiesis).
NOTA
1 – Col Vaticano II, abbiamo abbandonato l’idea che tutta la verità è
contenuta nella tradizione cattolico-romana e che gli altri cristiani devono solo
battersi il petto e ritornare alla “casa del padre”. Il decreto Unitatis redintegratio ai nn. 14-18
trattando degli orientali riconosce che “alcuni aspetti del mistero rivelato
sono stati talvolta percepiti in modo più adatto e posti in miglior luce dall’uno
che non dall’altro”; e che molte cose abbiamo preso dalle chiese orientali. La
costituzione Lumen gentium al n. 8
dichiara che “al di fuori del suo (Chiesa cattolica guidata dal successore di
Pietro) organismo si trovano parecchi elementi…di verità che….spingono verso
l’unità cattolica”.
Adduco
soltanto alcuni esempi. In Oriente
-
è stata meglio interpretata la funzione salvifica fondamentale della
Risurrezione di Cristo, un tempo esclusa dai nostri “misteri principali della
fede”;
-
è sempre stato interpretato il “mistero” (che rimane sempre tale!) dello
Spirito Santo sottolineando la sua funzione genetica ecclesiale; mentre noi gli
abbiamo riservato un cantuccio nella vita interiore del credente;
-
si ricava l’ecclesiologia dalla matrice sacramentaria (Eucaristia, episcopato),
mentre per noi essa spesso sconfinava nel diritto canonico;
-
si ricava la mariologia dalla grande Tradizione liturgica, mentre noi
volentieri ci affidavamo alle devozioni e mini-rivelazioni.
NOTA
2 - La pietra di confronto non è la teologia cattolica, ma la rivelazione di
Dio; che non può essere ristretta in formule pietrificate. La Scrittura, fonte
eminente della multiforme Parola di Dio, non è dettata meccanicamente; va
interpretata nel vero significato delle sue lingue e generi letterari e tenendo
conto degli sviluppi nel tempo al suo interno. L’interpretazione tradizionale è
legata all’ambiente culturale e storico che la riceve; è opera di tutte le
chiese e di ciascuna nella sua totalità, tenuto conto della progressione delle
posizioni degli studiosi (teologi) e delle decisioni dei pastori. (vescovi).
NOTA
3 – La diversità delle linee teologiche si può notare anche nella concezione
del Battesimo, il sacramento che ha maggiori addentellati col “peccato
originale”.
Leggendo
i vangeli, si distingue nettamente
-
il “battesimo di Giovanni” ricevuto anche da Gesù (ciò che è messo in ombra dal
IV evangelista)
-
il seguente “mistero” che si manifesta nell’apertura dei cieli, nella discesa
dello Spirito e nella voce del Padre che proclama Gesù suo Figlio. Sarà Gesù
che battezzerà in Spirito e toglierà il peccato del mondo.
Il
Battesimo cristiano avrà quindi due aspetti:
- sarà
immersione nella Morte di Gesù, come prolungamento della Passione salvatrice
(Bouyer), sepoltura della nostra dimensione “di carne”
-
attraverso il Risuscitamento di Gesù, sarà il nostro rivestimento di Cristo e la
conformazione a lui, la recezione della vita nuova per mezzo dell’effusione
dello Spirito, l’ingresso nel Regno-Chiesa, nel Popolo di Dio, che vive nel
nuovo “eone-eucaristia” (Evdokimov).
Storicamente
la Chiesa
latina ha sottolineato il primo di questi due aspetti, mentre quella greca ha
approfondito il secondo.
Seconda risposta: teologia del post-esilio
Il credente è
fatto consapevole che il mistero del dolore è decisamente superiore alle
facoltà della sua comprensione e che trova una sistemazione provvisoria nella fede
in un Dio-amore, in attesa dell’ultima e definitiva rivelazione che quel Dio ci
gratificherà nell’éschaton
A - Seconda teologia del libro di Giobbe (soprattutto cc. 38-42)
Il profeta che
esce dall’incontro col Dio teofanico - che si presenta nel contesto di un
uragano - è completamente cambiato.
Ha compreso
che il giusto soffre, indipendentemente dalla sua condotta morale, per la sua
costituzione di creatura limitata. Ora Giobbe si sente un nulla di fronte al
Creatore e raggiunge la verità piena e profonda su di lui.
Il suo
precedente peccato era stato un errore teologico, contro la fede: presumere di giudicare Dio, arrogandosi di essere
a lui pari. Troveremo un equivalente di questa albagia nell’insinuazione
diabolica “…sareste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gen 3,5).
Se nella prima
teologia l’uomo si riconosceva come una libertà che può peccare (errore morale),
qui è considerato come una creatura che ha dei limiti essenziali. E' ciò che, con linguaggio semitico, insegnano le molte pagine che confrontano il Dio onnipotente e onnisciente con la piccolezza dell'uomo. Il male
fisico viene dal limite creaturale, non certo dalla colpa.
Non capisce
alcunché di Dio chi applica al suo operato i canoni della giustizia umana. Gb
42,5 è il versetto chiave in cui Giobbe si confessa: “Io ti conoscevo per
sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto”
Il male rimane
un mistero. Ma Giobbe ha la certezza rassicurante che i giudei nell’esilio fruivano
della “presenza” del Signore.
B - Genesi 1
Il più tardivo
“racconto” (Presbiterale) della creazione è attribuito al tempo del post-esilio
Analogamente
alla teologia della creazione - espressa con magnificenza dal Deutero Isaia contro
la tentazione dei giudei che avevano ammirato le splendide liturgie degli idoli
mesopotamici - l’autore presenta Dio creatore di tutto come trascendente.
L’uomo è la
più perfetta delle creature, non uguale al Dio vero, ma fatto a sua
somiglianza. A lui Dio concede persino la facoltà di pro-creare (Gen 1,28; cfr
5,1-3). Di lui si predica lo splendore, ma i suoi “difetti” vengono sottaciuti,
in quanto evidentemente attribuibili alla sua creaturalità.
In un primo
tempo, gli ebrei agivano come se la sorte di Dio fosse legata a quella di
Israele. A questo livello della rivelazione, gli ebrei hanno capito che il loro
essere “Popolo eletto” non è un privilegio di cui vantarsi, ma un dono dato a
loro per la diffusione del culto del vero Dio presso tutti i popoli.
C – Romani 7 - 8
1 - Nel tragico capitolo Rm 7 San Paolo ci dice che il male proviene dalla costituzione
naturale imperfetta dell’uomo; che è calamitato dal male e non è libero (vedi
vv. 5.11.14-21.23-25). Quindi non ha bisogno di un’alleanza di reciprocità, ma
di un dono divino promesso e concesso.
Probabilmente questa è la prima
tavola del dittico che si deve intendere dell’uomo “secondo la carne” (e rimane
tale anche sotto la Legge,
perché nemmeno l’osservanza di questa può salvare); mentre la seconda tavola
presenta l’uomo “secondo lo Spirito”.
2 - Nella stessa lettera San
Paolo affronta il problema in prospettiva del tutto nuova. Nel centrale
capitolo 8 mette in raffronto il limite esistenziale della creaturalità (prima
creazione) coll’intervento che Dio opera, nello Spirito Santo, concedendoci
come dono di grazia l’implementazione della filiazione col farci
raggiungere per partecipazione il livello della natura divina (nuova
creazione).
La risposta di
Paolo – come in 2Cor 5,1-5 dove si distingue un’abitazione terrena da una nei
cieli - è espressa in chiave apocalittica. Nel testo abbiamo una dualità: carne
/ spirito (Spirito).
V. 7: la “carne” è ciò che non si
sottomette a Dio, perché non ne ha la capacità; esprime l’uomo “naturale”,
senza la grazia di Dio (Precisiamo: non ha il diritto di averla, ma è orientato
e chiamato a riceverla come dono gratuito)
V. 11: lo Spirito di Dio
risusciterà coloro che erano “carne”
V 19: le cose create sono in
attesa della filiazione manifestata (cfr 1Gv 3,2); alludendo a Gen 3, 5 dice
che, pur non diventando Dio, saremo figli di Dio sul modello del Cristo risorto.
V. 20s: la prima creazione è
stata sottoposta alla negatività (caducità, inconsistenza, o vanità:
vedi mataiòtes nel Qoelet e nei
Salmi) da Dio creatore, nella speranza della liberazione; il vero “figlio” sarà
obbediente (sottoposto) come controfigura della ribellione del primo adàm (Barbaglio). NB. Sembra che una
tradizione teologica abbia voluto evitare di correre il temuto pericolo di
attribuire l’origine dei mali (che realmente sono limiti!) a Dio, ipotizzando
che chi ha sottomesso la creazione alla mataiòtes
sia stato il diavolo.
V. 22: la creazione si trova oggi
come nelle doglie del parto; cioè in passaggio da una situazione preparatoria
ad un’altra superiore e definitiva (già e non ancora)
V. 23s: anche noi, benché già
possediamo le primizie dello Spirito, siamo in una situazione di passaggio;
siamo salvati in speranza
V. 26: lo Spirito ci è di aiuto
nella nostra debolezza; in quanto non sappiamo se sia meglio chiedere la
continuazione di questa vita “nella carne” (cfr Fil 1,22-24; 2Cor 5,8)
Vv. 28-30: promessa della
“gloria” e sua realizzazione
V. 38s: nessuna cosa creata potrà
impedire che veniamo realizzati pienamente nell’Amore.
La sintesi che
sta alla base di questa ultima pagina di teologia paolina comporta una visione
cristocentrica della creazione e dell’uomo: preesistenza di Cristo al creato
(“il vero primo Adamo è il Cristo”), creazione in Cristo per conseguire la
filiazione (vedi anche le lettere ai Colossesi e agli Efesini); nei tre
passaggi: elevazione / grazia / gloria (Gozzelino).
CONFRONTO SINTETICO E
CONCLUSIONE
1 - Le due teologie che abbiamo incontrato
pervadono tutto l’AT [7]
Teologia dell’Alleanza. E’
bidirezionale in quando un patto può esse stipulato fra almeno due persone o
gruppi, che sono tra di loro almeno sostanzialmente alla pari: esercitano con fedeltà
un dovere nel duplice scambio. La loro relazione può essere paragonata a un
processo, a una sentenza (cfr Dt 30, alcuni profeti e molti salmi)
Si fonda sulla libertà dell’uomo e
suppone una fiducia reciproca, che conduce alla solidità del rapporto. Esempio:
Is 7,9 che può avere questa traduzione: “Se non crederete, non resterete saldi”
(o “non sussisterete). Abbiamo qui una teologia del compenso.
Teologia della Promessa.
E’ unidirezionale in quanto chi assicura un bene deve averlo, a differenza del
recettore. I due in verità sono distanti essenzialmente (trascendenza del primo).
La loro relazione, essendo un dono di amore, è paragonabile con un matrimonio
(cfr Osea).
Si fonda sulla liberalità di Dio
e comporta un affidamento incondizionato al principio. Esempio Is 51,1; cfr Dt 32,18:
“Guardate alla roccia da cui siete stati tagliati”. Abbiamo qui una teologia
dell’Amore
La storia della salvezza nel
primo caso è amartocentrica (guarda al peccato dell’uomo), nel secondo
antropocentrica (guarda alla costituzione stessa dell’uomo). Il peccato
consiste là nel voler infrangere i limiti esistenziali, qui i limiti
ontologici.
Quale Dio ci viene presentato?
Nel primo caso: un sovrano
esigente, della fedeltà all’alleanza del quale si è tentati qualche volta a
dubitare (vedi l’ardita accusa di Sal 89,40: “Hai rotto l’alleanza col tuo
servo”)
Nel secondo facciamo affidamento
incrollabile al Dio che è “Amore fedele” (cfr Es 34,6: “Ricco di amore e di
fedeltà”).
Riferendoci al Cristo, possiamo
dire che nella prima impostazione (prevalente nella teologia occidentale) è
colui che con la Croce
ci redime dal male, nella seconda (preferita nella teologia orientale) è colui
che, nello Spirito, ci completa nella filiazione.
2 – La Scrittura considera
l’uomo un “unicum” vivente in due
condizioni esistenziali:
- L’uomo è “carne”, concetto
teologico che significa una forza del male, debolezza peritura, sede del
peccato ed esistenza votata alla morte, piccolezza davanti a Dio [8]
- E’ “spirito”, concetto teologico
del dono divino specifico dell’era escatologica (vedi Gl 3).
L’uomo, unica creatura visibile
libera,
-
non è assoluto, cioè libero da legami; qui il
riferimento corre all’albero della “conoscenza” (dominio) di bene-male.
-
non è perfetto, cioè completamente realizzato; qui il
riferimento va all’albero della “vita” (pienezza di esistenza).
L’uomo sarà stabile e realizzato
definitivamente da Dio solo nell'éschaton. E durante questa storia terrena? Sta come chi non vede nella Luna quella sua faccia a noi sempre nascosta; che comunque riceve sempre la luce del Sole che la illumina e riscalda.
In conclusione: la fede
ebraico-cristiana dà una soluzione al problema del male? La soluzione
definitiva sarà dono di Dio nella nuova vita.
- Al problema del peccato: esiste
il male morale perché hai usato male della tua libertà. Ma nella vita eterna
“non entrerà in essa (Gerusalemme celeste) nulla d’impuro, né chi commette
orrori e falsità” (Ap 21,27).
- Al problema del male fisico: i
mali sono limiti connaturali alla tua creaturalità. Ma il Dio che (nella
seconda parte di Isaia e di Giobbe) è presentato come Creatore “asciugherà ogni
lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte, né lutto, né lamento, né
affanno” (Ap 21,4).
[1] Ad un
credente “tradizionale” che rimanesse perplesso per quello che in seguito
diremo consiglio la lettura di un’esauriente e chiara trattazione di un
biblista che è diventato cardinale: G. BETORI, Mito, in Nuovo dizionario di teologia biblica, Ed. Paoline, Cinisello B.
19893, pp. 993-1012.
[2] Vedi
l’Introduzione a Giobbe nella Traduzione
ecumenica della Bibbia
(nell’edizione originale TOB-AT del 1975, 1443-1451)
[3] Vedi
SR. JEANNE D’ARCH, La retribuzione, in AA. VV., Grandi temi biblici, Ed. Paoline, Alba 1968, 163-176.
[4] Su
questo argomento rilevante e oggetto di molte riletture e diatribe, è utile la
consultazione del più volte citato testo documentato, chiaro ed equilibrato: G.
GOZZELINO, Vocazione e destino dell’uomo
in Cristo, Elle Di Ci, Leumann 1985.
[5] Vedi
il mio studio “La preesistenza di G:C. Uomo-Dio alla creazione e alla sàrkosis”
in Euntes Docete 3/1974, 266-310.
[6] Vedi
il mio studio “E’urgente annunciare all’uomo d’oggi la risurrezione dei morti”,
in Euntes Docete 3/1985, 299-309.
[7] P.
SACCHI, Storia del secondo tempio,
SEI, Torino 1994, soprattutto pp. 9-12.
[8] Vedi
la nota a Rm 7,5 in
La Bibbia
di Gerusalemme
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