Questa lettera,
scritta “in morte” di Margherita Hack, è stata pubblicata da” Avvenire” di
mercoledì 3 luglio 2013
Hack: che povero il suo scientismo
Sul generale elogio tributato
all’astrofisica Hack è lecito chiedersi quanto l’opinione pubblica si renda
conto dei vari “gradi del sapere” (vedi il famoso libro di J. Maritain). Una
ricerca antropologica che vuol essere esaustiva deve tener conto delle
categorie del vero (filosofia, in particolare metafisica), del bene (etica e
diritto), del bello (varie arti). Non posso escludere il lavoro di chi va oltre
i limiti ai quali io sono giunto.
La conoscenza della realtà, e in
particolare dell’uomo, ci fa capire che il grado da essa raggiunto dipende dai
parametri assunti e dai “mezzi” usati nella ricerca. Chi studia medicina
consoce la clinica ma anche la chirurgia, chi studia diritto conosce il civile e il penale; chi studia
antropologia deve passare per i capitoli della psicologia razionale; chi studia
fisica deve ammettere che altri studino chimica; i grandi scienziati di fisica
nucleare hanno ritenuto di dover porsi domande di morale, ed esigiamo dai
famosi economisti che se ne pongano di analoghe. La regola vale anche nella
ricerca scientifico-sperimentale: quando Galilei è passato dall’osservazione a
occhio nudo all’esplorazione col cannocchiale ha fatto un salto gnoseologico.
Ora ci chiediamo se il
neo-positivismo conoscitivo può essere
attribuito al pensiero di Hack oppure alla maggioranza dei suoi ammiratori,
allenati da molto tempo e con ogni mezzo a fermarsi incantati a mezza strada
nella conoscenza. In alcuni dibattiti che abbiamo seguito, Hack ha tirato in
ballo la sola osservazione scientifica, mentre non ha dato ascolto alle ragioni
di chi si fondava su argomenti antropologici (sentimento, “comune sentire”
universale, introspezione…) o metafisici (principio di causalità o di ragion
sufficiente…).
Perché allora tanta incontrollata
ammirazione in vita e in morte? E’ possibile pensare che Hack sia risultata
simpatica perché ha fatto professione di elementi che oggi formano il bagaglio
culturale e affettivo della maggioranza: lo scientismo esclusivista, la
negazione dello specifico umano, l’ateismo conclamato, il laicismo
intollerante, l’affermazione dei libertari “diritti civili”, la simpatia per la
sinistra.
Antonio
Contri
Questa lettera,
inviata al quotidiano veronese “L’Arena” in risposta a una precedente che
superficialmente disprezzava un intervento del Vescovo nel dibattito con l’astrofisica M. Hack, è stata manipolata
dalla direzione in modo tale da renderla incomprensibile.
Ancora Hack
Ho scritto un articolo su
Avvenire del 3 luglio sull’argomento Hack e ritengo di dover intervenire per
ribadire alcuni principi messi in dubbio in una lettera di qualche giorno fa su
questa rubrica. Alla base dell’intervento stava il vieto luogo comune
dell’ostracizzazione della metafisica.
Nel citato incontro tra Hack e il
Vescovo mancava una pedina sulla scacchiera. Tra un’astrofisica che conosce
bene il suo mestiere e un credente che parla al livello della “Critica della
ragion pratica” è assolutamente necessario l’anello di chi considera la realtà
con le lenti della metafisica, che, secondo i kantiani più devoti, Kant aveva
messo fuori gioco scrivendo quella che egli qualificava come “Critica della
ragion pura”. Il grande filosofo non si vergognava infatti di parlare di cielo
stellato e di legge morale; senza presumere di dimostrare tali realtà con
metodi sperimentali. Giustamente H. G. Gadamer scrive che la sua intuizione
fondamentale fu “quella di mostrare al sapere i suoi limiti, per fare spazio
alla fede”. Chi si ricorda più che Kant era un pietista? Consiglio la lettura
di un ponderoso saggio: M. Kuehn, Kant.
Una biografia, Il Mulino, Bologna 2011.
Purtroppo la nostra “cultura”
divulgativa è malata di scientismo, secondo il quale l’unica scienza sarebbe
quella sperimentale. Lo scibile umano è molteplice e nessuno dal suo angolo può
affermare di aver sondato esaurientemente la realtà esistente. Questa regola
vale anche nell’ambito delle scienze sperimentali: uno può vedere su un tessuto
qualcosa di più se usa il microscopio elettronico o i più perfezionati
strumenti diagnostici. Ma pensiamo anche, per esempio, che sulla luna può
esercitarsi l’astrofisico, ma anche il poeta o l’artista figurativo e lo
storico delle religioni.
In quel dibattito uno giocava
bene il suo rugby e l’altra si cimentava
in una partita di calcio. Come dire che, senza l’interprete, uno parlava
giapponese e l’altro sanscrito.
Antonio
Contri
Questo studiolo è scritto per una miglior comprensione dei due
interventi precedenti
Conoscenza, scienza e fede
I
Esistono per l’uomo molte vie di
conoscenza:
-
Esperienza esterna; attuata coi sensi esterni, spesso
aiutati da strumenti scientifici e tecnici. E’ il caso delle conoscenze
“scientifiche”, nel significato di “sperimentali” (come sarebbe una ricerca
istologica). Questa conoscenza, ma solo nell’opinione comune, è considerata
infallibile.
-
Esperienza interiore, che indaga sull’Io e sugli stati
d’animo del soggetto (autocoscienza).
-
Intuizione, che percepisce stati e situazioni dei
propri simili, per es. l’amore, l’odio, la sincerità…. Oppure filosofia, che individua
valori comuni. E’ il caso dell’indagine psicologica, dell’etica, del diritto…
-
Testimonianza o informazione a noi date dai nostri
simili. E’ il caso delle scienze descrittive, come storia civile o culturale o scientifica o
artistica, geografia, ….oppure delle notizie di cronaca
-
Ragionamento, che applica alcuni principi
caratteristici della mente umana, soprattutto metafisici (principio di
causalità,….). E’ il caso dell’affermazione dell’esistenza di un nuovo pianeta (è
noto il caso di Plutone) per la semplice osservazione delle irregolarità nei
movimenti di altri già conosciuti sperimentalmente; oppure della scoperta del
bosone di Higgs (maldestramente chiamato dai giornalisti “particella di Dio”).
-
Testimonianza superiore, come quella di un’eventuale
rivelazione di Dio all’uomo, secondo le varie tradizioni religiose dell’umanità.
Qui il credere è assolutamente libero, al contrario del caso delle affermazioni
metafisiche.
E’ quindi una riduzione indebita
– che ha una genesi storica lunga: empirismo, materialismo, pragmatismo… -
quella di riservare il concetto di “scienza” solo al primo caso elencato (come
fa la corrente positivistico-scientistica, imposta al grosso pubblico dai
superficiali mezzi di comunicazione, che sembrano fatti apposta per educare a
non pensare) e di revocare in dubbio tutte le altre “conoscenze”, specialmente
quelle che conseguentemente ci impegnerebbero in fondamentali scelte di vita
(magari sgradite)
Che Dio non sia oggetto delle
scienze sperimentale lo dice anche la
Bibbia: Dio non lo ha mai visto nessuno; anzi vedere Dio
equivale a uscire da questa vita (morire). Ma, come dice san Paolo, “Dio era in
Cristo”; o san Giovanni: Cristo “ce l’ha rivelato”.
Seguendo gli spunti offerti
dall’enciclica dei due Papi “Lumen Fidei” (nn. 29-33), si deve prendere in
considerazione un duplice aspetto della Fede:
-
Nell’ambiente semitico si tende a individuare il luogo
della fede nell’udito, nell’ascolto
della Parola di Dio, cui l’uomo
libero risponde coll’obbedienza;
-
Nell’ambiente greco si individua il luogo nella vista, nella conoscenza-comunione con
una Persona, che è Cristo-Luce; del
quale l’essere umano riflette naturalmente l’immagine.
Ecco perché il Cristo-Via è identificato col Verbo-Verità e con la Luce-Vita.
II
E’ corretto attribuire al
filosofo I. Kant la demolizione globale del discorso metafisico? E
subordinatamente dire: egli dimostra che non si può provare l’esistenza di Dio?
NB. Altro discorso sarebbe quello
della prova della sua non esistenza;
che nessun pensatore serio prenderebbe in considerazione.
Kant partiva da una concezione
restrittiva della metafisica, che per lui era rappresentata da Ch. Wolff; e - non
ritenendola una “scienza”, in quanto essa non giunge direttamente alla prova
sperimentale - cercava di darle un fondamento scientifico, come quello della
geometria (vedi già Cartesio, e poi Hobbes). Uno studioso di filosofia qual è
D. Antiseri afferma che si trova alla base “un radicato pregiudizio
scientistico”. Quella che Kant chiamava “metafisica della natura” era in realtà
un’epistemologia della scienza del
suo tempo (quella di I. Newton). Ma la scienza soprattutto moderna ha ottenuto
grandi progressi anche procedendo col ragionamento; quindi applicando i
principi della metafisica. Anzi K. R. Popper va oltre affermando, a proposito della
cosmologia, che “da Talete ad Einstein, dall’atomismo antico alla speculazione di
Gilbert, Newton, Leibniz e Boscovich sulle forze, a quella di Faraday ed Einstein sui campi di forze, sono state le idee metafisiche ad indicare la
strada”.
Un’affermazione evidente della
metafisica, come è comunemente intesa nella filosofia classica, è quella sul
principio di causalità. Che sta alla base - con formalità oggettiva e non solo
cognitiva – di tutte quelle che chiamiamo scienze naturali: un’infezione è prodotta
da qualcosa, come pure un terremoto…. Lo stesso si dica della responsabilità di
un delitto, della causa di un fatto storico…La relazione di causalità non è
prodotta, ma riconosciuta dall’intelletto; che etimologicamente deriva appunto da
“intus legere”. A chi obietta che il
principio di causalità non è applicabile al di fuori del mondo fisico, si deve
far osservare – per usare una metafora – che non si giudica sulla sostenibilità
fra gli anelli di una catena sospesa in verticale, ma si chiede se il primo di
quelli abbia in sé la ragione della sostenibilità. Questo a conferma della
nostra idea filosofica di Dio: più che Causa prima di una serie (categoriale), è
la Super-causa
di tutto (trascendentale).
Il grande filosofo - che ha
scritto significativamente: “la metafisica, della quale io ho il destino di
essere innamorato” - lascia l’idea di Dio al dominio della “ragione pratica”.
Ma si tenga presente che a questa egli attribuisce il primato sulla “ragione
pura”, in quanto sono realtà oggettive quei famosi tre “postulati” (libertà,
esistenza di Dio, immortalità dell’anima), che è consentito confrontare alle
tre “idee” non deducibili dalla “ragione
pura”.
Sarà utile a questo punto
schematizzare i tratti caratteristici delle due “cose” che Kant ammira nella
solenne conclusione della “Critica della ragione pratica”:
-
Il cielo stellato sopra di me, collocato nel mondo
sensibile esterno, ma costituito da grandezze immensurabili e da tempi
illimitati.
-
La legge morale in me, nel mio Io indivisibile, e che mi
rappresenta in un mondo infinito, percepibile solo dall’intelletto, e con cui
sono in connessione universale e necessaria; mi innalza al valore di
intelligenza; e manifesta inoltre una mia destinazione che va all’infinito.
Due “cose” che egli connette
immediatamente coll’autocoscienza.
Kant riconosce che la ragione
umana (pratica) arriva all’esistenza di Dio e solo nebulosamente alla
comprensione della sua natura; per l’evidente ragione che Dio è superiore alla
mente umana. Questa “via” non è esattamente “fede”, ma conclusione di un
ragionamento filosofico.
Il pericolo più grave per il
pensiero illuminista sarebbe quello di portare a un vago “deismo” (Dio, il
grande orologiaio, che non ama e non è provvidente). Ciò da cui – sulla linea
di S. Agostino - ci mette in guardia B. Pascal nel suo Memoriale: “Dio…non dei
filosofi e dei dotti”, e in uno dei più famosi “Pensieri”: “E’ il cuore che
sente Dio e non la ragione: Ecco che cos’è la fede: Dio sensibile al cuore, non
alla ragione”.
Quindi Kant ritiene la ragione
umana insufficiente per fondare la fede nel Dio personale della rivelazione, che
con atto sommamente libero si comunica all’uomo. La quale fede, come insegna la
teologia, assume due forme distinte: affidarsi totalmente a Dio (fides qua creditur, soggettiva) e
accettare le verità che egli ci rivela (fides
quae creditur, oggettiva).
Le idee sulla fede di Kant, che
era un cristiano protestante “pietista”, trovano l’entusiastica approvazione di
un altro filosofo di confessione protestante, Kierkegaard, che arriva a parlare
di “Via regale di Kant”.
NB. Allora perché si dice “credere
in Dio”? Perché credere è accettare l’esistenza di una realtà non
sperimentabile, che dovrà essere sottoposta al vaglio del ragionamento o di
altri strumenti (come: Credo che quel giornalista abbia detto la verità). Ciò
può giustificare, se bene intesa, l’affermazione “la fede è cieca”. Uno
studioso che pubblica ottimi studi di psicologia, P. Legrenzi, scrive che
credere è qualcosa di meno di sapere; ma è anche qualcosa di più: garantisce
una forma di conoscenza “più che certa”, che può persino andare al di là del
fatti e sconfinare nella fede.
Dovrebbe quindi essere chiara la
diversità di due discorsi:
a)
affermazione
filosofica di un “dio”, essere supremo, che è creatore e ordinatore (tema di
metafisica);
b)
fede
religiosa nel Dio persona, che è padre e provvidente (tema della teologia ebraico-cristiana).
Quindi possiamo dire che, in linea
ascendente, la ragione afferma
l’esistenza di Dio; mentre in un riferimento discendente, la fede ci dice ciò
che Dio afferma su se stesso, sull’uomo e su tutta la realtà.
III
L’atto di fede è una umiliante dichiarazione
di sudditanza? Nulla sarebbe più irricevibile di questo per l’uomo d’oggi che, avendo
adottato un concetto esorbitante di libertà, si considera assolutamente
indipendente da ogni autorità, sia umana che extraumana, sia individuale che
sociale.
Dobbiamo ammettere che quell’atto,
in quanto spirituale e relazionale, è specifico dell’essere umano.
Mettiamo quindi in evidenza la
struttura relazionale, dialogica, della fede.
Partiamo da una costatazione:
l’uomo non si dà da se stesso né l’essere né la vita, ma riceve questi doni dai
genitori; questi poi non possono ridare la vita a un figlio che muore. Inoltre
io metto in atto la mia relazionalità, cioè mi realizzo come persona, solo in
confronto paritetico con altri esseri a me uguali (vedi M. Buber).
L’uomo, in quanto incapace di
trovare in sé le ragioni della propria esistenza, e in quanto non spiegabile
nel suo “senso” più profondo con tutto il bagaglio pur prezioso delle
“scienze”, è costituzionalmente e operativamente un mistero (come dichiarano i
nostri migliori pensatori rinascimentali). L’alternativa sarebbe quella
dell’assurdo (vicolo cieco seguito da alcuni autori moderni). Se ci lasciamo
ingabbiare dalla diffusa domanda ad effetto “Chi è la causa di Dio?”, non
riusciamo a dare una risposta logica sull’esistenza della realtà.
A) Proviamo ad approfondire le
dimensioni (in direzione ascendente) che prendono come base di partenza la non
autosufficienza dell’uomo e lo aprono verso l’alto e l’Altro.
1 – Dalla filosofia, precisamente
dalla metafisica, possiamo accertare che, dal mondo concepito come essere
dipendente e realtà ordinata, è necessario risalire a un Creatore e ordinatore;
cioè capire che il mondo è strutturato da un “logos” (individuato dai filosofi,
specialmente antichi).
2 – La filosofia, precisamente l’antropologia,
scopre che l’uomo è persona, cioè è dotato di un’intelligenza aperta
all’ascolto di un eventuale messaggio provenente dall’esterno (come hanno
rilevato i moderni filosofi spiritualisti e personalisti).
3 – L’atteggiamento soggettivo di
adesione del “discepolo” a una persona, il Dio “revelans”, costituisce la virtù
della fede, che si attua negli atti di fede.
B) Abbiamo poi la struttura
recettiva della rivelazione.
4 – La religione (come
discendente) è costituita dalla risposta che viene data all’apertura dell’uomo:
Dio, che è persona, si comunica all’uomo in quanto gli dona una conoscenza di
verità e una capacità di vita che sono superiori alle sue naturali possibilità.
Grandi teologi luterani o riformati (per es. K. Barh), vedendo la religione
naturale ascendente come “opera” dell’uomo, accettano solo la validità di
quella che noi qui chiamiamo discendente.
5 – L’accettazione oggettiva del
messaggio del rivelatore costituisce il contenuto (“deposito”) della fede,
espresso con racconti e insegnamenti, trasmesso da Dio ai “credenti”: i
“revelata”.
6 – Su questa rivelazione-comunicazione
interviene la teologia: l’intelligenza umana dà una struttura concettuale al
linguaggio e ai contenuti comunicati. Al binomio rivelatorio “Parola di Dio/
Bibbia”, il quale trova il suo fondamento in Cristo (che è il “Logos” della
rivelazione), non essendo il credente un individuo senza riferimenti
trascendenti o storici, dobbiamo
affiancarne un secondo, recettivo:
“Tradizione/Comunità credente”, che manifesta la vitalità dello Spirito Santo.
Dove si può vedere la dipendenza dell’individuo dalla comunità e dalla storia.
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