giovedì 8 agosto 2013

Conoscere e credere



Questa lettera, scritta “in morte” di Margherita Hack, è stata pubblicata da” Avvenire” di mercoledì 3 luglio 2013

Hack: che povero il suo scientismo

Sul generale elogio tributato all’astrofisica Hack è lecito chiedersi quanto l’opinione pubblica si renda conto dei vari “gradi del sapere” (vedi il famoso libro di J. Maritain). Una ricerca antropologica che vuol essere esaustiva deve tener conto delle categorie del vero (filosofia, in particolare metafisica), del bene (etica e diritto), del bello (varie arti). Non posso escludere il lavoro di chi va oltre i limiti ai quali io sono giunto.
La conoscenza della realtà, e in particolare dell’uomo, ci fa capire che il grado da essa raggiunto dipende dai parametri assunti e dai “mezzi” usati nella ricerca. Chi studia medicina consoce la clinica ma anche la chirurgia, chi studia diritto conosce  il civile e il penale; chi studia antropologia deve passare per i capitoli della psicologia razionale; chi studia fisica deve ammettere che altri studino chimica; i grandi scienziati di fisica nucleare hanno ritenuto di dover porsi domande di morale, ed esigiamo dai famosi economisti che se ne pongano di analoghe. La regola vale anche nella ricerca scientifico-sperimentale: quando Galilei è passato dall’osservazione a occhio nudo all’esplorazione col cannocchiale ha fatto un salto gnoseologico.

Ora ci chiediamo se il neo-positivismo conoscitivo  può essere attribuito al pensiero di Hack oppure alla maggioranza dei suoi ammiratori, allenati da molto tempo e con ogni mezzo a fermarsi incantati a mezza strada nella conoscenza. In alcuni dibattiti che abbiamo seguito, Hack ha tirato in ballo la sola osservazione scientifica, mentre non ha dato ascolto alle ragioni di chi si fondava su argomenti antropologici (sentimento, “comune sentire” universale, introspezione…) o metafisici (principio di causalità o di ragion sufficiente…).
Perché allora tanta incontrollata ammirazione in vita e in morte? E’ possibile pensare che Hack sia risultata simpatica perché ha fatto professione di elementi che oggi formano il bagaglio culturale e affettivo della maggioranza: lo scientismo esclusivista, la negazione dello specifico umano, l’ateismo conclamato, il laicismo intollerante, l’affermazione dei libertari “diritti civili”, la simpatia per la sinistra.

                                                                                              Antonio Contri



Questa lettera, inviata al quotidiano veronese “L’Arena” in risposta a una precedente che superficialmente disprezzava un intervento del Vescovo nel dibattito con  l’astrofisica M. Hack, è stata manipolata dalla direzione in modo tale da renderla incomprensibile.

Ancora Hack

Ho scritto un articolo su Avvenire del 3 luglio sull’argomento Hack e ritengo di dover intervenire per ribadire alcuni principi messi in dubbio in una lettera di qualche giorno fa su questa rubrica. Alla base dell’intervento stava il vieto luogo comune dell’ostracizzazione della metafisica.
Nel citato incontro tra Hack e il Vescovo mancava una pedina sulla scacchiera. Tra un’astrofisica che conosce bene il suo mestiere e un credente che parla al livello della “Critica della ragion pratica” è assolutamente necessario l’anello di chi considera la realtà con le lenti della metafisica, che, secondo i kantiani più devoti, Kant aveva messo fuori gioco scrivendo quella che egli qualificava come “Critica della ragion pura”. Il grande filosofo non si vergognava infatti di parlare di cielo stellato e di legge morale; senza presumere di dimostrare tali realtà con metodi sperimentali. Giustamente H. G. Gadamer scrive che la sua intuizione fondamentale fu “quella di mostrare al sapere i suoi limiti, per fare spazio alla fede”. Chi si ricorda più che Kant era un pietista? Consiglio la lettura di un ponderoso saggio: M. Kuehn, Kant. Una biografia, Il Mulino, Bologna 2011.
Purtroppo la nostra “cultura” divulgativa è malata di scientismo, secondo il quale l’unica scienza sarebbe quella sperimentale. Lo scibile umano è molteplice e nessuno dal suo angolo può affermare di aver sondato esaurientemente la realtà esistente. Questa regola vale anche nell’ambito delle scienze sperimentali: uno può vedere su un tessuto qualcosa di più se usa il microscopio elettronico o i più perfezionati strumenti diagnostici. Ma pensiamo anche, per esempio, che sulla luna può esercitarsi l’astrofisico, ma anche il poeta o l’artista figurativo e lo storico delle religioni.
In quel dibattito uno giocava bene il suo rugby  e l’altra si cimentava in una partita di calcio. Come dire che, senza l’interprete, uno parlava giapponese e l’altro sanscrito.

                                                                                                               Antonio Contri


Questo studiolo è scritto per una miglior comprensione dei due interventi precedenti

Conoscenza, scienza e fede

I
Esistono per l’uomo molte vie di conoscenza:
-         Esperienza esterna; attuata coi sensi esterni, spesso aiutati da strumenti scientifici e tecnici. E’ il caso delle conoscenze “scientifiche”, nel significato di “sperimentali” (come sarebbe una ricerca istologica). Questa conoscenza, ma solo nell’opinione comune, è considerata infallibile.
-         Esperienza interiore, che indaga sull’Io e sugli stati d’animo del soggetto (autocoscienza).
-         Intuizione, che percepisce stati e situazioni dei propri simili, per es. l’amore, l’odio, la sincerità…. Oppure filosofia, che individua valori comuni. E’ il caso dell’indagine psicologica, dell’etica, del diritto…
-         Testimonianza o informazione a noi date dai nostri simili. E’ il caso delle scienze descrittive, come  storia civile o culturale o scientifica o artistica, geografia, ….oppure delle notizie di cronaca
-         Ragionamento, che applica alcuni principi caratteristici della mente umana, soprattutto metafisici (principio di causalità,….). E’ il caso dell’affermazione dell’esistenza di un nuovo pianeta (è noto il caso di Plutone) per la semplice osservazione delle irregolarità nei movimenti di altri già conosciuti sperimentalmente; oppure della scoperta del bosone di Higgs (maldestramente chiamato dai giornalisti “particella di Dio”).
-         Testimonianza superiore, come quella di un’eventuale rivelazione di Dio all’uomo, secondo le varie tradizioni religiose dell’umanità. Qui il credere è assolutamente libero, al contrario del caso delle affermazioni metafisiche.

E’ quindi una riduzione indebita – che ha una genesi storica lunga: empirismo, materialismo, pragmatismo… - quella di riservare il concetto di “scienza” solo al primo caso elencato (come fa la corrente positivistico-scientistica, imposta al grosso pubblico dai superficiali mezzi di comunicazione, che sembrano fatti apposta per educare a non pensare) e di revocare in dubbio tutte le altre “conoscenze”, specialmente quelle che conseguentemente ci impegnerebbero in fondamentali scelte di vita (magari sgradite)

Che Dio non sia oggetto delle scienze sperimentale lo dice anche la Bibbia: Dio non lo ha mai visto nessuno; anzi vedere Dio equivale a uscire da questa vita (morire). Ma, come dice san Paolo, “Dio era in Cristo”; o san Giovanni: Cristo “ce l’ha rivelato”.
Seguendo gli spunti offerti dall’enciclica dei due Papi “Lumen Fidei” (nn. 29-33), si deve prendere in considerazione un duplice aspetto della Fede:
-         Nell’ambiente semitico si tende a individuare il luogo della fede nell’udito, nell’ascolto della Parola di Dio, cui l’uomo libero risponde coll’obbedienza;
-         Nell’ambiente greco si individua il luogo nella vista, nella conoscenza-comunione con una Persona, che è Cristo-Luce; del quale l’essere umano riflette naturalmente l’immagine.
Ecco perché il Cristo-Via  è identificato col Verbo-Verità e con la Luce-Vita.

II
E’ corretto attribuire al filosofo I. Kant la demolizione globale del discorso metafisico? E subordinatamente dire: egli dimostra che non si può provare l’esistenza di Dio?
NB. Altro discorso sarebbe quello della prova della sua non esistenza; che nessun pensatore serio prenderebbe in considerazione.

Kant partiva da una concezione restrittiva della metafisica, che per lui era rappresentata da Ch. Wolff; e - non ritenendola una “scienza”, in quanto essa non giunge direttamente alla prova sperimentale - cercava di darle un fondamento scientifico, come quello della geometria (vedi già Cartesio, e poi Hobbes). Uno studioso di filosofia qual è D. Antiseri afferma che si trova alla base “un radicato pregiudizio scientistico”. Quella che Kant chiamava “metafisica della natura” era in realtà un’epistemologia della scienza del suo tempo (quella di I. Newton). Ma la scienza soprattutto moderna ha ottenuto grandi progressi anche procedendo col ragionamento; quindi applicando i principi della metafisica. Anzi K. R. Popper va oltre affermando, a proposito della cosmologia, che “da Talete ad Einstein, dall’atomismo antico alla speculazione di Gilbert, Newton, Leibniz e Boscovich sulle forze,  a quella di Faraday ed Einstein  sui campi di forze,  sono state le idee metafisiche ad indicare la strada”.
Un’affermazione evidente della metafisica, come è comunemente intesa nella filosofia classica, è quella sul principio di causalità. Che sta alla base - con formalità oggettiva e non solo cognitiva – di tutte quelle che chiamiamo scienze naturali: un’infezione è prodotta da qualcosa, come pure un terremoto…. Lo stesso si dica della responsabilità di un delitto, della causa di un fatto storico…La relazione di causalità non è prodotta, ma riconosciuta dall’intelletto; che etimologicamente deriva appunto da “intus legere”. A chi obietta che il principio di causalità non è applicabile al di fuori del mondo fisico, si deve far osservare – per usare una metafora – che non si giudica sulla sostenibilità fra gli anelli di una catena sospesa in verticale, ma si chiede se il primo di quelli abbia in sé la ragione della sostenibilità. Questo a conferma della nostra idea filosofica di Dio: più che Causa prima di una serie (categoriale), è la Super-causa di tutto (trascendentale).
Il grande filosofo - che ha scritto significativamente: “la metafisica, della quale io ho il destino di essere innamorato” - lascia l’idea di Dio al dominio della “ragione pratica”. Ma si tenga presente che a questa egli attribuisce il primato sulla “ragione pura”, in quanto sono realtà oggettive quei famosi tre “postulati” (libertà, esistenza di Dio, immortalità dell’anima), che è consentito confrontare alle tre “idee”  non deducibili dalla “ragione pura”.

Sarà utile a questo punto schematizzare i tratti caratteristici delle due “cose” che Kant ammira nella solenne conclusione della “Critica della ragione pratica”:
-         Il cielo stellato sopra di me, collocato nel mondo sensibile esterno, ma costituito da grandezze immensurabili e da tempi illimitati.
-         La legge morale in me, nel mio Io indivisibile, e che mi rappresenta in un mondo infinito, percepibile solo dall’intelletto, e con cui sono in connessione universale e necessaria; mi innalza al valore di intelligenza; e manifesta inoltre una mia destinazione che va all’infinito.
Due “cose” che egli connette immediatamente coll’autocoscienza.

Kant riconosce che la ragione umana (pratica) arriva all’esistenza di Dio e solo nebulosamente alla comprensione della sua natura; per l’evidente ragione che Dio è superiore alla mente umana. Questa “via” non è esattamente “fede”, ma conclusione di un ragionamento filosofico.
Il pericolo più grave per il pensiero illuminista sarebbe quello di portare a un vago “deismo” (Dio, il grande orologiaio, che non ama e non è provvidente). Ciò da cui – sulla linea di S. Agostino - ci mette in guardia B. Pascal nel suo Memoriale: “Dio…non dei filosofi e dei dotti”, e in uno dei più famosi “Pensieri”: “E’ il cuore che sente Dio e non la ragione: Ecco che cos’è la fede: Dio sensibile al cuore, non alla ragione”.
Quindi Kant ritiene la ragione umana insufficiente per fondare la fede nel Dio personale della rivelazione, che con atto sommamente libero si comunica all’uomo. La quale fede, come insegna la teologia, assume due forme distinte: affidarsi totalmente a Dio (fides qua creditur, soggettiva) e accettare le verità che egli ci rivela (fides quae creditur, oggettiva).
Le idee sulla fede di Kant, che era un cristiano protestante “pietista”, trovano l’entusiastica approvazione di un altro filosofo di confessione protestante, Kierkegaard, che arriva a parlare di “Via regale di Kant”.


NB. Allora perché si dice “credere in Dio”? Perché credere è accettare l’esistenza di una realtà non sperimentabile, che dovrà essere sottoposta al vaglio del ragionamento o di altri strumenti (come: Credo che quel giornalista abbia detto la verità). Ciò può giustificare, se bene intesa, l’affermazione “la fede è cieca”. Uno studioso che pubblica ottimi studi di psicologia, P. Legrenzi, scrive che credere è qualcosa di meno di sapere; ma è anche qualcosa di più: garantisce una forma di conoscenza “più che certa”, che può persino andare al di là del fatti e sconfinare nella fede.
Dovrebbe quindi essere chiara la diversità di due discorsi:
a)            affermazione filosofica di un “dio”, essere supremo, che è creatore e ordinatore (tema di metafisica);
b)            fede religiosa nel Dio persona, che è padre e provvidente (tema della teologia ebraico-cristiana).
Quindi possiamo dire che, in linea ascendente,  la ragione afferma l’esistenza di Dio; mentre in un riferimento discendente, la fede ci dice ciò che Dio afferma su se stesso, sull’uomo e su tutta la realtà.


III
L’atto di fede è una umiliante dichiarazione di sudditanza? Nulla sarebbe più irricevibile di questo per l’uomo d’oggi che, avendo adottato un concetto esorbitante di libertà, si considera assolutamente indipendente da ogni autorità, sia umana che extraumana, sia individuale che sociale.
Dobbiamo ammettere che quell’atto, in quanto spirituale e relazionale, è specifico dell’essere umano.

Mettiamo quindi in evidenza la struttura relazionale, dialogica, della fede.
Partiamo da una costatazione: l’uomo non si dà da se stesso né l’essere né la vita, ma riceve questi doni dai genitori; questi poi non possono ridare la vita a un figlio che muore. Inoltre io metto in atto la mia relazionalità, cioè mi realizzo come persona, solo in confronto paritetico con altri esseri a me uguali (vedi M. Buber).
L’uomo, in quanto incapace di trovare in sé le ragioni della propria esistenza, e in quanto non spiegabile nel suo “senso” più profondo con tutto il bagaglio pur prezioso delle “scienze”, è costituzionalmente e operativamente un mistero (come dichiarano i nostri migliori pensatori rinascimentali). L’alternativa sarebbe quella dell’assurdo (vicolo cieco seguito da alcuni autori moderni). Se ci lasciamo ingabbiare dalla diffusa domanda ad effetto “Chi è la causa di Dio?”, non riusciamo a dare una risposta logica sull’esistenza della realtà.

A) Proviamo ad approfondire le dimensioni (in direzione ascendente) che prendono come base di partenza la non autosufficienza dell’uomo e lo aprono verso l’alto e l’Altro.
1 – Dalla filosofia, precisamente dalla metafisica, possiamo accertare che, dal mondo concepito come essere dipendente e realtà ordinata, è necessario risalire a un Creatore e ordinatore; cioè capire che il mondo è strutturato da un “logos” (individuato dai filosofi, specialmente antichi).
2 – La filosofia, precisamente l’antropologia, scopre che l’uomo è persona, cioè è dotato di un’intelligenza aperta all’ascolto di un eventuale messaggio provenente dall’esterno (come hanno rilevato i moderni filosofi spiritualisti e personalisti).
3 – L’atteggiamento soggettivo di adesione del “discepolo” a una persona, il Dio “revelans”, costituisce la virtù della fede, che si attua negli atti di fede.

B) Abbiamo poi la struttura recettiva della rivelazione.
4 – La religione (come discendente) è costituita dalla risposta che viene data all’apertura dell’uomo: Dio, che è persona, si comunica all’uomo in quanto gli dona una conoscenza di verità e una capacità di vita che sono superiori alle sue naturali possibilità. Grandi teologi luterani o riformati (per es. K. Barh), vedendo la religione naturale ascendente come “opera” dell’uomo, accettano solo la validità di quella che noi qui chiamiamo discendente.
5 – L’accettazione oggettiva del messaggio del rivelatore costituisce il contenuto (“deposito”) della fede, espresso con racconti e insegnamenti, trasmesso da Dio ai “credenti”: i “revelata”.
6 – Su questa rivelazione-comunicazione interviene la teologia: l’intelligenza umana dà una struttura concettuale al linguaggio e ai contenuti comunicati. Al binomio rivelatorio “Parola di Dio/ Bibbia”, il quale trova il suo fondamento in Cristo (che è il “Logos” della rivelazione), non essendo il credente un individuo senza riferimenti trascendenti o storici,  dobbiamo affiancarne  un secondo, recettivo: “Tradizione/Comunità credente”, che manifesta la vitalità dello Spirito Santo. Dove si può vedere la dipendenza dell’individuo dalla comunità e dalla storia.


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