COME COMPRENDERE LA RIVELAZIONE
La Rivelazione pubblica
ebraico-cristiana si attua in tre momenti
diversi:
1 – Precedente: la Storia e la rivelazione
interiore
Un insieme di fatti e parole (ambedue
significati nell’ebraico dabar)
trasmessi oralmente dalla tradizione religiosa del popolo credente. Esempio:
Geremia che si pone in ascolto di Dio e che trasmette in scritti la sua
esperienza.
La “storia della salvezza” si fonda
su una serie di episodi, còlti nella loro essenzialità, continuità e prospettiva
religiosa; mentre i particolari della cronaca (più che delle storia) possono
porsi in reciproco contrasto.
Nelle tradizioni in ambito
semitico, si deve tener presente l’elemento fondamentale di quel linguaggio: il
ricorso al simbolo, specialmente facendo uso di racconti (teologia narrativa) e
immagini per esprimere un’idea o un dovere morale. Esempio: le vicende dei
patriarchi e dei due regni, le allegorie dei profeti e le parabole di Gesù.
Interpretare un discorso di
un’altra cultura coi parametri della nostra equivale a non comprendere il suo
vero significato.
2 - Centrale: la Scrittura del primo e del
definitivo Patto (Antico e Nuovo Testamento).
Questo comporta una fase di
diverse interpretazioni dei fatti e parole (varie teologie), che sono soggetti
a mutazioni nella collocazione culturale e cronologica Esempio: la parte
prevalente dell’epistolario paolino è ben diversa dalla Lettera agli ebrei.
Molto importante è
l’individuazione dei modi di esprimersi delle varie culture (generi letterari)
anche all’interno della stessa Scrittura.
La determinazione degli scritti
rivelatòri (canone biblico) viene fatta dalle varie comunità credenti, che
vedono in essi la pura e retta espressione della fede comune in un determinato
periodo. Esempio: le varie posizioni assunte nell’arco degli scritti ispirati
dalla teologia della retribuzione.
Per farli accettare come Parola
di Dio in una società altamente religiosa e legata alla tradizione dei “padri”,
si fa ricorso alla pseudonimia (attribuzione a personaggi particolarmente
venerati). Esempio: il libro del Deuteronomio
Per interpretare la Scrittura si fa ricorso
agli studiosi (biblisti, letterati, storici, archeologi….)
3 – Conseguente:
l’interpretazione della comunità credente, che comprende anche la “lex orandi”.
Su ogni singolo problema si fissa
un’interpretazione sintetica e definitiva, espressa nella storia della
tradizione. Esempio: le varie concezioni del messianismo (A e NT) e
dell’identità di Gesù nei “vangeli dell’infanzia”.
Si tiene conto delle posizioni dei
capi carismatici e istituzionali delle comunità e delle posizioni aberranti di
alcuni credenti (eresie), come nell’incipiente gnosticismo. Insomma: risposte
nuove, con linguaggio nuovo, a questioni nuove.
Quindi nei varianti ambiti
culturali e storici si può dare una compresenza di diverse teologie, che però
sono unite nell’espressione essenziale e fondamentale del dato di fede, oltre
il quale si cade nell’eresia. Esempio: le classiche scuole alessandrina,
antiochena, romana…
Siccome Dio si è manifestato all’essere
razionale anche nella rivelazione naturale, il patrimonio di fede e morale
contenuto nella Bibbia può essere interpretato secondo il dono divino
dell’intelletto, nella comprensione progressiva delle varie epoche e culture.
Per esempio risultano superate alcune concezioni o disposizioni dei due
Testamenti, comprensibili nella concezione antropologica di una società antica
(che qualcuno interpreta come volere assoluto di Dio): la visone del cosmo, la
pena di morte, la guerra santa e l’anatèma, la vendetta esercitata da Dio sui
nemici suoi e del credente, l’intervento sempre immediato (senza le cause
seconde) di Dio nelle vicende della storia, la superiorità del marito sulla
moglie, l’esaudimento immancabile di tutte le richieste dell’orante, la lettura
catastrofica della conclusione della storia propria dei testi apocalittici…..
Come conclusione, possiamo dire che, per esempio, non dobbiamo ricercare
affannosamente ciò che disse Gesù, ma accogliere come Parola di Dio ciò che la
comunità apostolica ha voluto che fosse fissato definitivamente nella
Scrittura.
Più in generale dobbiamo ben
distinguere due “letture” della Rivelazione:
1 – Il metodo storico-critico,
che è norma per lo studioso, analizza come il complesso della R. si è formato
nel variare dei tempi e delle culture.
2 – Il catechismo, che serve al
pastore, espone la R.
come risulta dalla lettura sintetica e definitiva che ne dà la Chiesa.
Naturalmente lo studioso non deve
accusare l’altro di infantilismo e dabbenaggine; il secondo non deve ritorcere
l’accusa di razionalismo ed eresia.
Nota 1
Le definizioni solenni del
magistero ecclesiastico si comprendono in un particolare linguaggio culturale,
cambiato il quale è possibile tentare linguaggi nuovi. Persino nella stessa
cultura (greca) abbiamo diversi cambi di linguaggio Esempio: nel concilio di
Nicea I abbiamo hypostasis sinonimo
di ousia; la lettera esplicativa del Costantinopolitano
I a papa Damaso parla di una ousia o physis e di tre hypostaseis o prosopa; a
Calcedonia si definiscono due physeis
e un prosopon o hypostasis (I testi si trovano in Conciliorum oecumenicorum decreta, rispettivamente alle pp. 5, 28,
86). Sarebbe incongruente se si non accettasse l’intercambiabilità dei termini
in questa che è parola della Chiesa, e si ignorasse che l’AT esprime ad esempio
la sopravvivenza dell’uomo dopo la morte con “si risveglieranno” (Dn 12,2) e
con incorruttibilità o immortalità (Sap 2,23 e 3,4).
Nota 2
Si deve assumere oggi un concetto
trascendentale di Dio, che fonda originariamente la causalità delle creature,
superandola; di un Dio che non esce periodicamente dalla sua orbita per
apportare delle correzioni alla storia, comportandosi come la causa prima di
una serie di cause (concetto categoriale).
Tutto questo ci fa abbandonare la
vecchia concezione della “ispirazione” biblica come “dettatura meccanica”; che
deve essere vista invece come influsso trascendentale dell’Autore principale (Dio)
sulle facoltà dell’agiografo.
ESEMPLIFICAZIONI DI
UNA POSSIBILE ERMENEUTICA
I – LA FORMAZIONE DI MARCO
A prescindere dal IV vangelo –
del tutto singolare e inondato da una cultura diversa – se una persona semplice
legge attentamente i vangeli sinottici, prima o poi si accorge delle molte
diversità nel racconto (concordia discors),
persino in passaggi molto importanti: il discorso della montagna, le
beatitudini, il “Padre nostro”, l’istituzione dell’Eucaristia, il racconto della Passione, le apparizioni
del Risorto.
A questa, che si chiama
“questione sinottica”, sono state date diverse risposte; la teoria più
accettata è quella della derivazione di Mt e Lc da due fonti: Quelle (o fonte dei logia) e Mc.
Ma da quale fase della
composizione di Marco? Porterò alcuni
argomenti per dire come in questo vangelo si possa notare una divergenza, fino
alla contraddizione, tra alcune affermazioni; precisamente tra quelle che
riferiscono i fatti-detti e i titoli del Gesù della vita pubblica fino alla sua
morte, e quelle che tengono conto dell’inserzione di testi contenenti la
comprensione delle primitive affermazioni alla luce sempre più chiara dello
sviluppo post-pasquale; frutto questo
della non breve riflessione religiosa e spirituale delle chiese apostoliche.
Conferma di questa impostazione si ha negli sviluppi che uno stesso fatto-detto
o titolo troverà spazio nei testi paralleli di Mt e Lc..
Premetto due osservazioni
a)
Il cosiddetto “segreto messianico” può essere
forse interpretato come espressione del mistero, che i discepoli capiranno dopo
diverso tempo, che in qualche modo giustifica le loro precedenti incomprensioni.
b)
“Figlio di Dio” (specialmente quando si trova
senza gli articoli) e “figlio dell’uomo” in molti casi si possono intendere
come corrispondenti a Messia-Cristo. Esempi: “Sei tu il Cristo, il Figlio del
Benedetto?” (14,61; cfr Mt 26,63: “…se sei tu il Cristo, il Figlio del Dio?”); “Davvero quest’uomo era figlio di Dio”
(15,39), che rappresenta l’apice del vangelo marciano. Si può ipotizzare che la
citata domanda del sommo sacerdote, nella formulazione di Mt, sia stata
inserita per giustificare una condanna così grave come la capitale.
Esempi
A) “Dio” è
sempre attribuito a Dio Padre e Gesù non se ne è mai appropriato. Esempi: “Chi
può perdonare i peccati, se non il Dio solo? (2,7); “Perché mi chiami buono?
Nessuno è buono se non il Dio solo” (10,18).
B) Per cui il
vangelo assume una chiara dimensione teocentrica (o meglio: teo-teletica).
L’affermazione del “Regno di Dio” è lo
scopo per cui è venuto Gesù. Così pure si deve attribuire la comparizione del
termine “vangelo” a un più tardo periodo (vedi 10,29: “…per causa mia e per
causa del vangelo”).
C) Esistono
due passi in cui “Figlio” risulta usato in forma assoluta:
a) Dio (il padrone della vigna)
mandò “un figlio amato”, che chiama “il mio figlio” (12,6). Ma, benché riferito
indiscutibilmente a Gesù, è contenuto in una parabola.
b) Nel discorso escatologico (o
apocalittico), Gesù precisa: “Quanto a quel giorno o quell’ora, nessuno lo sa,
né gli angeli nel cielo, né il Figlio, ma soltanto il Padre” (13,32). Questo da
alcuni autori è considerato come un testo dell’autocoscienza filiale di Gesù;
ma resta il fatto che, pur essendo stato inserito in un contesto apparentemente
anti-filiale (e quindi certamente autentico), potrebbe provenire da un
“accrescimento” dovuto alla posteriore comunità credente. Un versetto
avvicinabile a questo è 10,40: “…non sta a me concederlo; è per coloro per i
quali è stato preparato (passivo teologico)”.
Quindi in Mc Gesù non si sarebbe
mai storicamente attribuito l’identità di Figlio naturale e unico di Dio, come
lo presenta Giovanni e come al termine della riflessione comprenderà la fede
della chiesa dei concili
D)
Quelle che vengono chiamate profezie “ex
eventu” e altri testi consimili possono servire al nostro assunto: dopo la
pasqua sono state aggiunte delle determinazioni (e solo queste sarebbero “ex eventu”):
a) “Il Figlio dell’uomo doveva
soffrire…..e dopo tre giorni risorgere” (8,31; cfr. 9,31; 10,33s). Qui il verbo
alla forma attiva fa pensare alla “risurrezione”; anche perché in caso
contrario non si comprenderebbe l’evidente sconforto-dolore dei discepoli.
Invece “….deve soffrire molto ed essere
disprezzato” (9,12) non fa menzione della risurrezione.
b) “….se non dopo che il Figlio
dell’uomo fosse risorto dai morti” (9,9s). Qui il verbo è ancora alla forma
attiva
c) “…dopo che sarò risuscitato….”
(14,28; al quale fa eco “fu elevato in cielo” dell’appendice: 16,19) esprime il
“risuscitamento” (verbo alla forma passiva).
E’ facile ipotizzare un
inserimento della “risurrezione” da parte della comunità post-pasquale.
E)
Un esempio classico di inserimento si ha tra Mc 8,29 (Tu sei il Cristo”) e Mt
16,16 (“Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”; cfr. Mt 14,33: Veramente
tu sei figlio di Dio”).
Alla pienezza della fede
cristologica – anche per contrastare le nascenti eresie - si arriverà soltanto
con gli scritti giovannei e deutero-paolini, e coi vangeli dell’infanzia. Quasi
per supplire alla mancanza in Mc di un vangelo dell’infanzia, si potrebbe
ipotizzare che Mc 6,6 dica Gesù “figlio di Maria”, diversamente da Mt 13,55 e
Lc 4,22 (“figlio di Giuseppe”), ribadendo così da parte sua la verginità “ante partum”, cioè la nascita verginale
del Redentore.
II - I VANGELI
DELL’INFANZIA
Nota
Evidentemente assumiamo qui il
metodo storico-critico che cerca di ricostruire il Gesù della storia, ma non
contrasta col linguaggio della fede e della spiritualità, esemplarmente
espresso nel limpido volume J. RATZINGER – BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù.
I “vangeli dell’infanzia” di Matteo
e di Luca non trovano facile composizione col vangelo di Giovanni, né coi
capitoli rimanenti dei loro racconti principali, né tra il racconto dell’uno e
dell’altro. Non vanno quindi sovrapposti e concordati come se uno dicesse
quello che manca nell’altro.
E’ necessario sceverare la
teologia li Matteo da quella di Luca, perché la loro intenzione è di proporre
una essenziale teologia su Gesù (cristologia), che corrisponde nella sostanza alla cristologia del seguito dei vangeli.
La teologia comune ai due comprende
per Gesù l’identità del Figlio mandato dal Padre come salvatore dell’umanità e
la sua dimensione manifestativa (profetica).
Già nei rotoli di Qumran compare
un duplice Messia:
a) di Israele
(regale davidico, laico)
b) di Aronne (Sacerdote).
Matteo
1 – Rivelazione a Giuseppe,
figlio di Davide (1,20)
Giuseppe ha l’ordine di imporre
il nome al nascituro (1,21)
Egli prende con sé (in casa sua) la
sua sposa (1,24) e impone il nome al Bambino
2 – Il Bambino nasce a Betlemme (2,1) e viene adorato in una casa
(2,11), evidentemente quella di Giuseppe
Probabilmente per concentrare
l’attenzione sulla “vera” genitrice, nel racconto della visita dei Magi manca
Giuseppe. Vedi qui sotto (*) una posizione analoga nel dialogo riportato da
Luca.
3 – La sacra famiglia esula in
Egitto e decide di ritornare in Giudea (2,13-23)
Ma per paura dei politici si
trasferisce a Nazaret (2,23), il
villaggio di Maria
Note
Quasi tutti gli eventi si
ritengono collocati nella conosciuta Betlemme, città natale del Re Davide. L’intenzione
di Matteo è, nonostante la nascita di Gesù in Giudea, di giustificare il titolo
“Gesù di Nazaret” (sconosciuto villaggio che viene nominato solo alla fine).
La sua finalità è quella di
presentare Gesù come il Messia davidico (a).
Luca
1 - Nell’Annunciazione a Maria si
parla subito di Nazaret (1,26); il
messaggero divino entra da lei, cioè in casa sua (1,28)
Maria dovrà imporre il nome a
Gesù (1,31)
Dopo la Visitazione, Maria
ritorna a casa sua (1,56).
2 – Per disposizione
dell’autorità politica romana, da Nazaret Giuseppe e Maria si portano a Betlemme, la città di Davide (2,4s).
Qui Maria partorisce il Bambino e
lo depone in una mangiatoia (phàtne),
che è presentata come importante “segno” (2,7.12.16); perché non c’era posto
nell’alloggio (katàlyma).
NB. La tradizione ha derivato da
“mangiatoia” l’indicazione (cfr Lc 13,15) di una stalla (per arrivare alla
“grotta” si deve attendere S. Giustino martire, nel secondo secolo).
Si discute su due significati di
“katàlyma”: può essere una parte del
caravanserraglio in cui riposavano i viaggiatori coi loro animali, oppure la
stanza della casa (composta di due locali) dove alloggiava e dormiva la
famiglia, distinta dall’altro locale che serviva da stalla per gli animali.
Al Bambino in famiglia (e non nel
tempio, come immaginano gli artisti) viene messo il nome (2,21); se
consideriamo il verbo come un passivo teologico, possiamo intendere: fu messo
da Dio.
3 – Gesù viene presentato al
tempio (2,27.37)
La sacra famiglia ritorna a Nazaret (2,39)
NB. Seguirà, fuori dai termini
dell’infanzia, lo smarrimento e il ritrovamento di Gesù nel tempio tra i
maestri della Legge (2,46). Vedi una posizione, simile a quella rilevata per
Matteo (*), nella “correzione” che Gesù dodicenne fa al linguaggio di Maria,
passando da “padre tuo” a “Padre mio” (2,48s).
Poi la famiglia ritorna a Nazaret
(2,51), che diventerà il paese di Gesù.
Note
L’intenzione di Luca è di
mostrare che il Profeta di Nazaret, per essere considerato legalmente un
davidico, doveva nascere a Betlemme.
La finalità di Luca è quella di
presentare Gesù come il nuovo Sacerdote (b).
Infatti, contrariamente al
discorso “apologetico” che - per giustificare la discendenza davidica,
escludendo Giuseppe - colloca la famiglia di provenienza di Maria in quella
linea (così la tradizione prevalente, compresi i vangeli apocrifi), dobbiamo
affermare che la sua famiglia è sacerdotale. Prova ne siano la parentela con
Elisabetta, discendente da Aronne e sposa di un sacerdote (1,5), e inoltre il
tempio presentato insistentemente nel lungo racconto lucano.
Qui gli estremi del racconto
fanno riferimento a Nazaret, mentre Betlemme figura come un’eccezione imposta
da una decisione esterna.
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