sabato 26 gennaio 2013

Storicità della Rivelazione


COME COMPRENDERE LA RIVELAZIONE



            La Rivelazione pubblica ebraico-cristiana si attua in tre momenti diversi:

1 –  Precedente: la Storia e la rivelazione interiore
Un insieme di fatti e parole (ambedue significati nell’ebraico dabar) trasmessi oralmente dalla tradizione religiosa del popolo credente. Esempio: Geremia che si pone in ascolto di Dio e che trasmette in scritti la sua esperienza.
La “storia della salvezza” si fonda su una serie di episodi, còlti nella loro essenzialità, continuità e prospettiva religiosa; mentre i particolari della cronaca (più che delle storia) possono porsi in reciproco contrasto.
Nelle tradizioni in ambito semitico, si deve tener presente l’elemento fondamentale di quel linguaggio: il ricorso al simbolo, specialmente facendo uso di racconti (teologia narrativa) e immagini per esprimere un’idea o un dovere morale. Esempio: le vicende dei patriarchi e dei due regni, le allegorie dei profeti e le parabole di Gesù.
Interpretare un discorso di un’altra cultura coi parametri della nostra equivale a non comprendere il suo vero significato.

2 -  Centrale: la Scrittura del primo e del definitivo Patto (Antico e Nuovo Testamento).
Questo comporta una fase di diverse interpretazioni dei fatti e parole (varie teologie), che sono soggetti a mutazioni nella collocazione culturale e cronologica Esempio: la parte prevalente dell’epistolario paolino è ben diversa dalla Lettera agli ebrei.
Molto importante è l’individuazione dei modi di esprimersi delle varie culture (generi letterari) anche all’interno della stessa Scrittura.
La determinazione degli scritti rivelatòri (canone biblico) viene fatta dalle varie comunità credenti, che vedono in essi la pura e retta espressione della fede comune in un determinato periodo. Esempio: le varie posizioni assunte nell’arco degli scritti ispirati dalla teologia della retribuzione.
Per farli accettare come Parola di Dio in una società altamente religiosa e legata alla tradizione dei “padri”, si fa ricorso alla pseudonimia (attribuzione a personaggi particolarmente venerati). Esempio: il libro del Deuteronomio
Per interpretare la Scrittura si fa ricorso agli studiosi (biblisti, letterati, storici, archeologi….)

3 – Conseguente: l’interpretazione della comunità credente, che comprende anche la “lex orandi”.
Su ogni singolo problema si fissa un’interpretazione sintetica e definitiva, espressa nella storia della tradizione. Esempio: le varie concezioni del messianismo (A e NT) e dell’identità di Gesù nei “vangeli dell’infanzia”.
Si tiene conto delle posizioni dei capi carismatici e istituzionali delle comunità e delle posizioni aberranti di alcuni credenti (eresie), come nell’incipiente gnosticismo. Insomma: risposte nuove, con linguaggio nuovo, a questioni nuove.
Quindi nei varianti ambiti culturali e storici si può dare una compresenza di diverse teologie, che però sono unite nell’espressione essenziale e fondamentale del dato di fede, oltre il quale si cade nell’eresia. Esempio: le classiche scuole alessandrina, antiochena, romana…
Siccome Dio si è manifestato all’essere razionale anche nella rivelazione naturale, il patrimonio di fede e morale contenuto nella Bibbia può essere interpretato secondo il dono divino dell’intelletto, nella comprensione progressiva delle varie epoche e culture. Per esempio risultano superate alcune concezioni o disposizioni dei due Testamenti, comprensibili nella concezione antropologica di una società antica (che qualcuno interpreta come volere assoluto di Dio): la visone del cosmo, la pena di morte, la guerra santa e l’anatèma, la vendetta esercitata da Dio sui nemici suoi e del credente, l’intervento sempre immediato (senza le cause seconde) di Dio nelle vicende della storia, la superiorità del marito sulla moglie, l’esaudimento immancabile di tutte le richieste dell’orante, la lettura catastrofica della conclusione della storia propria dei testi apocalittici…..

Come conclusione, possiamo dire che, per esempio, non dobbiamo ricercare affannosamente ciò che disse Gesù, ma accogliere come Parola di Dio ciò che la comunità apostolica ha voluto che fosse fissato definitivamente nella Scrittura.

Più in generale dobbiamo ben distinguere due “letture” della Rivelazione:
1 – Il metodo storico-critico, che è norma per lo studioso, analizza come il complesso della R. si è formato nel variare dei  tempi e delle culture.
2 – Il catechismo, che serve al pastore, espone la R. come risulta dalla lettura sintetica e definitiva che ne dà la Chiesa.
Naturalmente lo studioso non deve accusare l’altro di infantilismo e dabbenaggine; il secondo non deve ritorcere l’accusa di razionalismo ed eresia.

Nota 1
Le definizioni solenni del magistero ecclesiastico si comprendono in un particolare linguaggio culturale, cambiato il quale è possibile tentare linguaggi nuovi. Persino nella stessa cultura (greca) abbiamo diversi cambi di linguaggio Esempio: nel concilio di Nicea I abbiamo hypostasis sinonimo di ousia;  la lettera esplicativa del Costantinopolitano I a papa Damaso parla di una ousia o physis e di tre hypostaseis o prosopa; a Calcedonia si definiscono due physeis e un prosopon o hypostasis (I testi si trovano in Conciliorum oecumenicorum decreta, rispettivamente alle pp. 5, 28, 86). Sarebbe incongruente se si non accettasse l’intercambiabilità dei termini in questa che è parola della Chiesa, e si ignorasse che l’AT esprime ad esempio la sopravvivenza dell’uomo dopo la morte con “si risveglieranno” (Dn 12,2) e con incorruttibilità o immortalità (Sap 2,23 e 3,4).

Nota 2
Si deve assumere oggi un concetto trascendentale di Dio, che fonda originariamente la causalità delle creature, superandola; di un Dio che non esce periodicamente dalla sua orbita per apportare delle correzioni alla storia, comportandosi come la causa prima di una serie di cause (concetto categoriale).
Tutto questo ci fa abbandonare la vecchia concezione della “ispirazione” biblica come “dettatura meccanica”; che deve essere vista invece come influsso trascendentale dell’Autore principale (Dio) sulle facoltà dell’agiografo.


ESEMPLIFICAZIONI DI UNA POSSIBILE ERMENEUTICA

I – LA FORMAZIONE DI MARCO


A prescindere dal IV vangelo – del tutto singolare e inondato da una cultura diversa – se una persona semplice legge attentamente i vangeli sinottici, prima o poi si accorge delle molte diversità nel racconto (concordia discors), persino in passaggi molto importanti: il discorso della montagna, le beatitudini, il “Padre nostro”, l’istituzione dell’Eucaristia,  il racconto della Passione, le apparizioni del Risorto.
A questa, che si chiama “questione sinottica”, sono state date diverse risposte; la teoria più accettata è quella della derivazione di Mt e Lc da due fonti: Quelle (o fonte dei logia) e Mc.
Ma da quale fase della composizione di Marco?  Porterò alcuni argomenti per dire come in questo vangelo si possa notare una divergenza, fino alla contraddizione, tra alcune affermazioni; precisamente tra quelle che riferiscono i fatti-detti e i titoli del Gesù della vita pubblica fino alla sua morte, e quelle che tengono conto dell’inserzione di testi contenenti la comprensione delle primitive affermazioni alla luce sempre più chiara dello sviluppo  post-pasquale; frutto questo della non breve riflessione religiosa e spirituale delle chiese apostoliche. Conferma di questa impostazione si ha negli sviluppi che uno stesso fatto-detto o titolo troverà spazio nei testi paralleli di Mt e Lc..
Premetto due osservazioni
a)      Il cosiddetto “segreto messianico” può essere forse interpretato come espressione del mistero, che i discepoli capiranno dopo diverso tempo, che in qualche modo giustifica le loro precedenti incomprensioni.
b)      “Figlio di Dio” (specialmente quando si trova senza gli articoli) e “figlio dell’uomo” in molti casi si possono intendere come corrispondenti a Messia-Cristo. Esempi: “Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?” (14,61; cfr Mt 26,63: “…se sei tu il Cristo, il Figlio del Dio?”);  “Davvero quest’uomo era figlio di Dio” (15,39), che rappresenta l’apice del vangelo marciano. Si può ipotizzare che la citata domanda del sommo sacerdote, nella formulazione di Mt, sia stata inserita per giustificare una condanna così grave come la capitale.

Esempi
A) “Dio” è sempre attribuito a Dio Padre e Gesù non se ne è mai appropriato. Esempi: “Chi può perdonare i peccati, se non il Dio solo? (2,7); “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono se non il Dio solo” (10,18).
B) Per cui il vangelo assume una chiara dimensione teocentrica (o meglio: teo-teletica). L’affermazione del “Regno di Dio”  è lo scopo per cui è venuto Gesù. Così pure si deve attribuire la comparizione del termine “vangelo” a un più tardo periodo (vedi 10,29: “…per causa mia e per causa del vangelo”).
C) Esistono due passi in cui “Figlio” risulta usato in forma assoluta:
a) Dio (il padrone della vigna) mandò “un figlio amato”, che chiama “il mio figlio” (12,6). Ma, benché riferito indiscutibilmente a Gesù, è contenuto in una parabola.
b) Nel discorso escatologico (o apocalittico), Gesù precisa: “Quanto a quel giorno o quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo, né il Figlio, ma soltanto il Padre” (13,32). Questo da alcuni autori è considerato come un testo dell’autocoscienza filiale di Gesù; ma resta il fatto che, pur essendo stato inserito in un contesto apparentemente anti-filiale (e quindi certamente autentico), potrebbe provenire da un “accrescimento” dovuto alla posteriore comunità credente. Un versetto avvicinabile a questo è 10,40: “…non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato (passivo teologico)”.
Quindi in Mc Gesù non si sarebbe mai storicamente attribuito l’identità di Figlio naturale e unico di Dio, come lo presenta Giovanni e come al termine della riflessione comprenderà la fede della chiesa dei concili
            D) Quelle che vengono chiamate profezie “ex eventu” e altri testi consimili possono servire al nostro assunto: dopo la pasqua sono state aggiunte delle determinazioni (e solo queste sarebbero “ex eventu”):
a) “Il Figlio dell’uomo doveva soffrire…..e dopo tre giorni risorgere” (8,31; cfr. 9,31; 10,33s). Qui il verbo alla forma attiva fa pensare alla “risurrezione”; anche perché in caso contrario non si comprenderebbe l’evidente sconforto-dolore dei discepoli. Invece  “….deve soffrire molto ed essere disprezzato” (9,12) non fa menzione della risurrezione.
b) “….se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti” (9,9s). Qui il verbo è ancora alla forma attiva
c) “…dopo che sarò risuscitato….” (14,28; al quale fa eco “fu elevato in cielo” dell’appendice: 16,19) esprime il “risuscitamento” (verbo alla forma passiva).
E’ facile ipotizzare un inserimento della “risurrezione” da parte della comunità post-pasquale.
            E) Un esempio classico di inserimento si ha tra Mc 8,29 (Tu sei il Cristo”) e Mt 16,16 (“Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”; cfr. Mt 14,33: Veramente tu sei figlio di Dio”).

Alla pienezza della fede cristologica – anche per contrastare le nascenti eresie - si arriverà soltanto con gli scritti giovannei e deutero-paolini, e coi vangeli dell’infanzia. Quasi per supplire alla mancanza in Mc di un vangelo dell’infanzia, si potrebbe ipotizzare che Mc 6,6 dica Gesù “figlio di Maria”, diversamente da Mt 13,55 e Lc 4,22 (“figlio di Giuseppe”), ribadendo così da parte sua la verginità “ante partum”, cioè la nascita verginale del Redentore.


II - I VANGELI DELL’INFANZIA

Nota
Evidentemente assumiamo qui il metodo storico-critico che cerca di ricostruire il Gesù della storia, ma non contrasta col linguaggio della fede e della spiritualità, esemplarmente espresso nel limpido volume J. RATZINGER – BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù.

I “vangeli dell’infanzia” di Matteo e di Luca non trovano facile composizione col vangelo di Giovanni, né coi capitoli rimanenti dei loro racconti principali, né tra il racconto dell’uno e dell’altro. Non vanno quindi sovrapposti e concordati come se uno dicesse quello che manca nell’altro.
E’ necessario sceverare la teologia li Matteo da quella di Luca, perché la loro intenzione è di proporre una essenziale teologia su Gesù (cristologia), che corrisponde nella sostanza alla  cristologia del seguito dei vangeli.
La teologia comune ai due comprende per Gesù l’identità del Figlio mandato dal Padre come salvatore dell’umanità e la sua dimensione manifestativa (profetica).
Già nei rotoli di Qumran compare un duplice Messia:
a) di Israele (regale davidico, laico)
b) di Aronne (Sacerdote).


Matteo

1 – Rivelazione a Giuseppe, figlio di Davide (1,20)
Giuseppe ha l’ordine di imporre il nome al nascituro (1,21)
Egli prende con sé (in casa sua) la sua sposa (1,24) e impone il nome al Bambino

2 – Il Bambino nasce a Betlemme (2,1) e viene adorato in una casa (2,11), evidentemente quella di Giuseppe
Probabilmente per concentrare l’attenzione sulla “vera” genitrice, nel racconto della visita dei Magi manca Giuseppe. Vedi qui sotto (*) una posizione analoga nel dialogo riportato da Luca.

3 – La sacra famiglia esula in Egitto e decide di ritornare in Giudea (2,13-23)
Ma per paura dei politici si trasferisce a Nazaret (2,23), il villaggio di Maria

Note
Quasi tutti gli eventi si ritengono collocati nella conosciuta Betlemme, città natale del Re Davide. L’intenzione di Matteo è, nonostante la nascita di Gesù in Giudea, di giustificare il titolo “Gesù di Nazaret” (sconosciuto villaggio che viene nominato solo alla fine).
La sua finalità è quella di presentare Gesù come il Messia davidico (a).


Luca

1 - Nell’Annunciazione a Maria si parla subito di Nazaret (1,26); il messaggero divino entra da lei, cioè in casa sua (1,28)
Maria dovrà imporre il nome a Gesù (1,31)
Dopo la Visitazione, Maria ritorna a casa sua (1,56).

2 – Per disposizione dell’autorità politica romana, da Nazaret Giuseppe e Maria si portano a Betlemme, la città di Davide (2,4s).
Qui Maria partorisce il Bambino e lo depone in una mangiatoia (phàtne), che è presentata come importante “segno” (2,7.12.16); perché non c’era posto nell’alloggio (katàlyma).
NB. La tradizione ha derivato da “mangiatoia” l’indicazione (cfr Lc 13,15) di una stalla (per arrivare alla “grotta” si deve attendere S. Giustino martire, nel secondo secolo).
Si discute su due significati di “katàlyma”: può essere una parte del caravanserraglio in cui riposavano i viaggiatori coi loro animali, oppure la stanza della casa (composta di due locali) dove alloggiava e dormiva la famiglia, distinta dall’altro locale che serviva da stalla per gli animali.
Al Bambino in famiglia (e non nel tempio, come immaginano gli artisti) viene messo il nome (2,21); se consideriamo il verbo come un passivo teologico, possiamo intendere: fu messo da Dio.

3 – Gesù viene presentato al tempio (2,27.37)
La sacra famiglia ritorna a Nazaret (2,39)

NB. Seguirà, fuori dai termini dell’infanzia, lo smarrimento e il ritrovamento di Gesù nel tempio tra i maestri della Legge (2,46). Vedi una posizione, simile a quella rilevata per Matteo (*), nella “correzione” che Gesù dodicenne fa al linguaggio di Maria, passando da “padre tuo” a “Padre mio” (2,48s).
Poi la famiglia ritorna a Nazaret (2,51), che diventerà il paese di Gesù.

Note
L’intenzione di Luca è di mostrare che il Profeta di Nazaret, per essere considerato legalmente un davidico, doveva nascere a Betlemme.
La finalità di Luca è quella di presentare Gesù come il nuovo Sacerdote (b).
Infatti, contrariamente al discorso “apologetico” che - per giustificare la discendenza davidica, escludendo Giuseppe - colloca la famiglia di provenienza di Maria in quella linea (così la tradizione prevalente, compresi i vangeli apocrifi), dobbiamo affermare che la sua famiglia è sacerdotale. Prova ne siano la parentela con Elisabetta, discendente da Aronne e sposa di un sacerdote (1,5), e inoltre il tempio presentato insistentemente nel lungo racconto lucano.
Qui gli estremi del racconto fanno riferimento a Nazaret, mentre Betlemme figura come un’eccezione imposta da una decisione esterna.




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