SUL MISTERO DELLA MORTE
Ci troviamo spesso riuniti in comunità davanti alla bara di un nostro compagno di viaggio che ha “terminato la sua corsa” (cfr. 2Tm 4,7). Un rito funebre ci costringe a porci i più grandi quesiti della nostra esistenza. Se esista un Dio nonostante il male, se la vita continui oltre la morte: sono due tra i problemi più consistenti con cui si sono cimentati i massimi pensatori e su cui si fondano le grandi religioni.
L’uomo d’oggi, soffocato dalle attività esteriori, rifugge dal discorso della morte. Siamo tutti come il bambino che, davanti allo spauracchio, scappa a gambe levate. La scusa più comune per non parlarne è che noi – come dice quel grande credente inquieto e sincretista di Lev Tolstoj (Nota 1) – ci illudiamo che la morte riguardi solo gli altri. Ma la realtà della morte è come un esame per lo studente: non serve la paura, ma la preparazione. D’altra parte è sempre vero che nella vita s’impara più dalle disgrazie (che ci costringono a guardare gli ostacoli sulla via) che non dai successi (che ci anestetizzano o ci ubriacano). Anzi appezziamo veramente la vita (come tanti altri beni) solo quando stiamo per perderla o i nostri cari l’hanno già perduta.
Dobbiamo fare un discorso per credenti, ma per credenti adulti. Il credente toglie la morte dal limbo dell’assurdo (ciò che va contro la ragione) per inserirlo nel paradiso del mistero (ciò che è superiore alla ragione, soprattutto a quella delle scienze sperimentali). E l’uomo è un mistero, perché sta al confine tra il finito e l’infinito, tra il tempo e l’eternità: è un corpo nobilitato da un’intelligenza autocosciente e da una volontà libera.
La morte sconvolge la nostra intelligenza e il nostro cuore. Come la luna, ha un lato luminoso, a noi visibile, e un altro oscuro, per noi problematico. Nello stesso tempo è un problema semplice, ma è anche (sotto un altro punto di vita) complesso.
Problema semplice. L’uomo non è eterno, perché è costitutivamente limitato nell’esistenza, perché non è l’Assoluto, cioè non è Dio. La nostra cultura precristiana – cominciando da Omero – distingueva gli dèi immortali, da noi poveri mortali. Ciò che l’antropologia semitica esprime rispettivamente con queste equazioni: immortale = spirito; mortale = carne.
La teologia sapienziale dei primi capitoli della Bibbia (espressa con linguaggio simbolico (Nota 2) , come fanno gli orientali, che sono molto più profondi di noi) ci ricorda che due sono le realtà che Dio ha riservato a sé: la determinazione del bene e del male (l’albero della conoscenza) e la vita senza fine (l’albero della vita).
Ma questi limiti non sono agevolmente accettabili dalla superbia umana: l’uomo vuol giocare ad essere dio (superstizioni, magia, spiritualità orientali, esoterismo…), anzi vuol divenire dio (cultura moderna nata coll’illuminismo); deve invece accogliere il dono di essere simile a Dio (religione rivelata). Di qui deriva il cosiddetto peccato d’origine, col suo misterioso (Nota 3) legame tra peccato e morte, che verrà sufficientemente illuminato soltanto col Cristo risorto. Io sono limitato nel tempo (esisto adesso) e limitato nello spazio (sono qui). L’accettazione del limite supremo della morte è il più alto atto di fede che la creatura possa esprimere verso Colui che è il Totalmente Altro (Dio).
La rivelazione del Nuovo Testamento giunge a una conclusione: Dio - che “ci ha donato i beni grandissimi e preziosi, a noi promessi, affinché per loro mezzo diventiamo partecipi della natura divina” (2Pt 1,5) - per mezzo di Cristo nello Spirito (vedi tutto il cap. VIII della lettera ai Romani) ci dona la vita immortale. Questo è l’ultimo balzo del grandioso movimento evolutivo, che noi ammettiamo soltanto per fede, dove l’uomo risulta solo recettore e non operatore nemmeno in linea sinergica.
Un lettura intelligente di San Tommaso ci fa scoprire alcune sue idee molto innovative. L’anima, per un dono soprannaturale, preserva il corpo dalla corruttibilità e gli infonderà la sua immortalità (Nota 4) . “La risurrezione è naturale rispetto al fine, in quanto è naturale per l’anima essere unita al corpo; mentre non è naturale il suo principio attivo, ma sarà causata dalla sola virtù di Dio” (Contra gentiles IV, 81, 6).
Il nostro corpo è fatto per concludere la sua parabola terrena: è solo l’antenna estraibile del nostro Io nel mondo (la persona umana in relazione). L’uomo con le sole forze del corpo non possiede il dono della sopravvivenza, verso la quale meta sente un’irresistibile pulsione. Se San Francesco tratta con familiarità con la “sorella morte”, è perché questa è la nostra inseparabile e necessaria compagna di viaggio (“nullo omo vivente po’ scampare”) ed è stata illuminata dalla Morte e Risurrezione di Cristo. Se alcuni muoiono giovani ed altri anziani, è per le nostre mille diversità che ci distinguono nella nostra precaria esistenza terrena. Più che il quando si muore, è importante il come si vive.
Problema non semplice. La sparizione dal proscenio del mondo è l’interruzione totale delle nostre relazioni col cosmo, del rapporto con tutto ciò che è immerso nel mondo materiale: le cose non personali e gli altri Tu; si presenta come la distruzione dei legami più sacri e profondi, verso tutto quanto abbiamo conosciuto e amato. E ci sembra che qualcuno strappi con sadismo un brandello della nostra carne. Quanto abbiamo creato con la nostra attività o con la mente sembra sprofondare nell’abisso del non-senso. E ci sembra di essere irrimediabilmente falliti.
Gesù Cristo stesso, come uomo, nel Getsemani ha avuto paura della morte (cfr. Mc 14,33s)(Nota 5) . E San Paolo non ci proibisce di piangere, ma di piangere come coloro che non hanno speranza (cfr.1Ts 4,13) cioè coloro che vanno a sbattere contro il muro dell’assurdo: perchè noi sappiamo che, al di là del muro, c’è il mistero dell’amore infinito di Dio, che è amore fedele (cfr. Es 34,6).
Nell’infinità, onnipresenza e onnipotenza di Dio, noi comunichiamo con i Tu umani che stanno nel mondo. In una società post-cristiana che impazza nel cercare le metodiche più esoteriche per comunicare coi defunti, noi sappiamo che la via più sicura è quella della preghiera, specialmente eucaristica. Estraiamo quindi con fiducia l’antenna della nostra fede-speranza-carità e formiamo una comunità soprannaturale coi nostri cari che sono passati a un’altra, diversa, ma beatificante vita.
Eucaristia vuol dire “rendimento di grazie”. Approfittando di un pensiero di Sant’Agostino sulla morte di un nostro caro, concluderò: non siamo così esacerbati e ribelli da chiedere troppo a lungo a Dio perché ce l’abbia tolto, ma siamo così sereni e fiduciosi da ringraziarlo perennemente perché ce l’ha donato.
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Nota 1 - Pensiero espresso in La morte di Ivan Il’ic
Nota 2 - E’ interessante notare che i due “alberi” del racconto sono unificati nell’albero che sta al centro del giardino (Gen 3,3)
Nota 3 - Si tenga conto che i “racconti” dei primi capitoli della Bibbia (Gen 1-3) sono una delle molteplici antropologie a amartiologie (discorsi sul peccato) del testo sacro con finalità di approfondimento aitiologico (o eziologico: che ricerca le cause), e che ad essi è stata tradizionalmente attribuita un’esagerata importanza per il fatto che sono collocati in quel posto e vengono assunti come una relazione storico-letteraria dei fatti delle origini. “Il carattere di pena proprio della morte, che si vede così chiaramente nella narrazione jahvistica di Gn 3, non si osserva altrove nell’AT” (A. Giudici, nella voce “Morte” del Nuovo Dizionario di Teologia, Paoline 1977, 968; dove alla nota 8 si citano il Grande Commentario Biblico e il Grande Lessico del Nuovo Testamento). I pellegrini che furono assassinati da Pilato nel Tempio e coloro (forse operai) sui quali rovinò la torre di Siloam (Siloe) non sono più peccatori degli altri, ma il duplice episodio serve come forte richiamo alla conversione (cfr. Lc 13,1-5). La cecità non è dovuta né ai peccati del soggetto né a quelli dei suoi genitori (cfr. Gv 9, 2s). Sul famoso (più citato che compreso) “per peccatum mors” (Rm 5,12) di San Paolo, G. Barbaglio assicura: “E’ indubbio che si tratta della morte eterna, della condanna, come si esprime il v. 18” (Le lettere di Paolo, vol. 2, Borla, Roma 1980, 306). Consoliamoci però, in quanto lo stesso Sant’Agostino, non conoscendo il greco, su quel non facile versetto (“eph’ho” = “in quo”; che oggi viene tradotto “poiché”) ha preso un solenne “granchio”.
Nota 4 - M. IMPERATORI, Escatologia e risurrezione dei corpi in San Tommaso d’Aquino, in La civiltà cattolica, IV/2010 (quad. 3849), 257-268.
Nota 5 - Vetta del mistero cristiano, che un pietismo tradizionale insistentemente ci aveva interpretato come una sofferenza di Gesù in previsione dei nostri peccati.
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