POSSIAMO FARE A MENO DI DIO?
Un docente (di tutt’altra disciplina) di’un istituzione culturale di Verona ha tentato un’incursione in campo teologico – come richiede un andazzo che adesso è di moda - affermando, tra molte altre “odifreddure” recuperate da un ammuffito sottoscala antireligioso: “Mi dispiace per Dio, ma l’uomo non è stato creato perfetto”. Si vorrebbe che l’uomo, sostituto idolatrico della vecchia divinità, assumesse l’attributo “perfettissimo” che un tempo solo a questa spettava. Purtroppo l’attuale pensiero ateizzante o agnostico, se da un versante livella con inspiegabile entusiasmo l’uomo al rango degli altri primati, con pari albagia lo assolutizza a livello dell’essere che spiega e dà la ragione sufficiente all’intero cosmo. Dio diviene così l’ingombrante “terzo incomodo” che l’uomo moderno deve rimuovere dagli scaffali del suo sapere, ma soprattutto dalla sua emancipata vita morale.
Oggi ha vasta diffusione la massima eresia di sempre: l’orgoglio presuntuoso dell’uomo che si proclama autosufficiente di fronte a Dio. Nel più antico “racconto” genesiaco delle origini, il peccato - che chiamo più volentieri “fondamentale” - si concretizza nella tentazione che insinua: “Sareste come Dio” (3,5); mentre il piano creativo, nel “racconto” più recente, parla di un dono: “Facciamo l’uomo a nostra immagine…” (1,26). Ma tale titanismo, contrastante coll’ “affidamento” della fede, è un atteggiamento ben conosciuto da molti testi biblici (vedi ad esempio i Salmi 10 e 14; Isaia, ai capitoli 7 e 14; Geremia, ai capitoli 5 e 17; Ezechiele, ai capitoli 27, 28, 29, 31).
L’uomo é potenzialità: è fatto per costruirsi col suo operare libero. Ora riscontriamo che esistono due interpretazioni diametrali di tale potenzialità: l’uomo e la comunità degli uomini si realizzano con le proprie forze naturali (naturalismo di Pelagio); oppure essi raggiungono il loro scopo solo con la “grazia” o la predestinazione da parte di Dio (Lutero e Calvino).
Se vogliamo fondarci sulla teologia equilibrata dei cristiani, dobbiamo riconoscere che l’uomo e l’umanità coi loro sforzi possono raggiungere – e di fatto storicamente raggiungono - solo i fini penultimi, ma inesorabilmente falliscono nel raggiungimento del fine ultimo. Detto in linguaggio cristiano, non sono salvati, essendo la salvezza la completa e definitiva realizzazione della persona e della comunità secondo la loro natura specifica. Questa salvezza può essere intesa come “grazia” e Regno intrastorico, in questo ordine di cose (eone), oppure come “gloria” e Regno soprastorico nell’ordine delle ultime realtà (escatologico).
Abbiamo bisogno di Dio per essere realizzati completamente e definitivamente in tre settori: a) nell’ordine conoscitivo: è la rivelazione che ci fa conoscere le risposte ai massimi problemi umani (vedi il confronto tra sapienza umana e divina tematizzato da San Paolo nei capitoli 1-2 della prima lettera ai Corinzi, e il n. 10 della costituzione “Gaudium et spes” del Vaticano II); b) nell’ordine morale: è la grazia di Dio che fa uscire l’uomo dal vicolo cieco che San Paolo tratteggia nel capitolo 7 della lettera ai Romani; c) nell’ordine esistenziale: quel Dio che ha risuscitato Cristo dai morti darà, per mezzo dello stesso Spirito, la vita definitiva ai nostri corpi mortali (come dice la stessa lettera in 8,11).
La teologia cattolica prevede l’operare concordemente (sinergia) - benché a livello essenzialmente differenziato - di Dio e dell’uomo, tenendo conto della duplice affermazione di San Paolo: ”Dedicatevi alla vostra salvezza (…); è Dio che suscita in voi il volere e l’operare” (Fil 2,12s; ma vedi anche Ef 2,10; 3,20; Eb 13,21). Dio è come il sole che d’inverno in una stanza riscalda noi, che abbiamo il dovere i tenere aperte le imposte della finestra.
La fede e la grazia non remano contro la ragione e la libertà, ma vi apportano in più un elemento essenziale e decisivo. Non dimentichiamo inoltre che è necessario distinguere il dedurre verità su Dio dalla filosofia e “prestar fede” a Dio che si rivela. Per risolvere il nodo gordiano del rapporto scienza-fede, è necessario introdurre al banchetto come “pivot” il “convitato di pietra” che è appunto la ragione; e quest’ultima ha una duplice funzione in teologia: affermare i presupposti filosofici del “credere”, e fornire i concetti necessari per tradurre nella nostra cultura mediterranea la rivelazione inizialmente sedimentata nel semitico “patois de Canaan” (il linguaggio della Bibbia).
Si possono leggere utilmente alcuni illuminanti paragrafi della già citata “Gaudium et spes”: sulle radici scientistiche e tecnicistiche dell’ateismo (n. 19s); sul fatto che l’attesa della speranza non diminuisce l’importanza degli impegni terreni (n. 21) e che Dio non può essere presentato come rivale dell’uomo (n. 34); sul principio consolidato che le realtà terrene – negli ambiti della loro competenza - possono richiamare la propria autonomia di fronte ai dettami della rivelazione, per il semplice motivo che anche la natura viene da Dio (Copernico, Keplero, Galilei parlano del libro della natura scritto da un Dio geometra e matematico); realtà lontane però dal proclamarsi indipendenti da Dio (n. 36), tanto che l’attività umana viene elevata a perfezione dall’intervento divino nella storia centrato nel Cristo risorto (n. 38).
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