sabato 19 giugno 2010

Filosofia e Religione/1

CHE POSSIAMO DIRE DI DIO?

E’ necessario chiarire preventivamente di quale “dio” si parla:
• “dio” del panteismo (Spinoza)
• del deismo (Voltaire)
• del teismo (Tommaso, Pascal)
• della rivelazione (Mosè, Giovanni)
• della mistica (Meister Eckhart).

A
Il pensiero degli atei o agnostici si avvale di due tendenze o “correnti” di una certa filosofia moderna: lo scientismo e l’utilitarismo.

I - Riduzionismo, malattia del pensiero, che privilegia tre aspetti:
* la dimensione quantitativa (misurabile) della realtà,
* il livello infra-umano degli esistenti
* e l’aspetto particolare dei problemi.
Siamo passati
a) dalla sintesi tra fede e ragione (medioevo)
b) alla sola ragione (illuminismo)
c) alla sola ragione scientifica (positivismo)
d) alla sola tecnica utile (pragmatismo).

Lo scientismo è una tendenza culturale che si può presentare con questi ragionamenti esposti in scaletta:
• Si vuol portare il grado di certezza della filosofia al livello di quello delle scienze naturali (della natura): metodo sperimentale ;
• Si riduce la conoscenza alla “scienza sperimentale”: si riduce la funzione della ragione alla capacità di ordinare i dati sperimentali; sulla linea della “ragione pura” (cioè “scientifica”, cioè fondata sulla sperimentalità, in quanto il “noumeno” è irraggiungibile) di Kant;
• Si escludono quindi dal novero della “scienza” quelle che sono chiamate scienze morali, giuridiche, psicologiche (sovra-sperimentali), storiche e in generale le “scienze umane” (o “dello spirito”) – che potrebbero appartenere alla “ragione pratica” (cioè non “scientifica” nel senso già spiegato) di Kant - nonché le arti; cioè il frutto della libertà e dell’immaginazione dell’essere spirituale che è l’uomo;
• Si escludono i principi del pensiero extrasperimentale (metafisico), come il principio di causalità; il quale invece sta alla base di ogni esperimento scientifico (ma anche: ogni medico patologo parla di “eziologia”). Sarebbe un principio etereo quello che dice “Ciò che non ha una spiegazione in se stesso rimanda a una spiegazione in alio”?

Ma Kant non era un credente? Sì, ma era un protestante e per di più appartenente al movimento del “pietismo”, per cui egli tendeva a riservare la conoscenza di Dio alla rivelazione (e quindi alla fede) e all’esperienza personale (e quindi alla mistica). Questo pensiero non è nuovo né esclusivo, in quanto è applicato da cattolici (Pascal) e da protestanti (Kierkegaard, Barth) .
Questi pensatori hanno ragione nel senso che un “dio” oggetto di dimostrazioni intellettuali e che non incida nella nostra vita è un idolo superfluo che serve da icona più elementare degli illuministi.
A proposito della dimostrabilità dell’esistenza di Dio, Kant dice che la Provvidenza non ha voluto legare una conoscenza così importante a sottili ragionamenti, ma alla “naturale intelligenza degli uomini” . Esiste quindi una filosofia dell’uomo comune (filosofia universale, del consenso dei popoli) che ritiene superflue o artificiose le argomentazioni filosofiche (teologia naturale, filosofia religiosa).
Questo pensiero assume una posizione che potrebbe essere riassunta così:
• Se c’è un ordine nelle cose, c’è una finalità
• Se c’è una finalità, si presuppone una essere intelligente e libero
• Un essere intelligente e libero non è una natura inconsapevole e deterministica, ma una “persona”
• Se questa “persona” agisce intelligentemente nel cosmo, può entrare in relazione personale con me.
Dio è l’evidente invisibile come l’aria dell’atmosfera: non dissertiamo su di essa, non la vediamo, diciamo che un locale è vuoto quando c’è solo l’aria….ma non possiamo vivere senza di essa.

E’ importante e doveroso mantenere distinti gli ambiti di ogni conoscenza e far uso degli strumenti ad essa pertinenti.
Cambia il risultato di una ricerca secondo il mezzo di conoscenza che usiamo, per esempio
* se guardiamo il cielo con un cannocchiale artigianale (e non vediamo alcuni corpi celesti)
* se lo osserviamo coll’ultimo telescopio prodotto dalla scienza e tecnica più sviluppate.

Sul tipo di certezza raggiungibile dallo scibile umano, si deve tener presente – come insegna Dilthey con la sua “critica della ragione storica” - la sostanziale differenza fra le scienze della natura e quelle dello spirito. Nel linguaggio di Pascal (che era anche uno scienziato) si potrebbe parlare di esprit de géométrie e esprit de finesse.
Un esempio che si può portare è questo: il medico legale ha la possibilità di raggiungere la certezza fisica quando individua il calibro della pallottola che ha ucciso un malcapitato, ma il giudice può raggiungere al massimo la certezza morale dalle prove processuali che lo inducono a condannare il colpevole. Eppure si tratta di due realtà non certo evanescenti e sfuggevoli, benché di ordine diverso.
Questa distinzione fra le scienze è fondamentale in quanto si rifà alla evidente distinzione
• tra natura (costituita dalle cose, dagli oggetti, dagli “esseri”), regno del determinismo
• e persona (nata dalle “relazioni”, prima delle quali quella che dà origine all’autocoscienza), regno della libertà.
Aggiungo: poiché l’uomo è la “cifra” dell’universo, non capisce pianamente la realtà chi non vede la differenza essenziale tra il cosmo e l’uomo.

II – Utilitarismo

Questo modo di pensare – che parte almeno da F. Bacone - riduce ciò che è degno di essere trattato dalla filosofia a conoscenze, tecniche e applicazioni che producano un effetto pratico per il benessere dell’umanità. Ma non si pongono il problema che queste attività possono anche sfuggire al controllo e alla volontà di base del ricercatore e quindi produrre effetti negativi.
Come si fa a dire che la scienza e la tecnica non devono mai essere limiate, quando abbiamo l’uso perverso dell’energia atomica, delle sostanze inquinanti l’atmosfera, dei componenti cancerogeni nei cibi, eccetera? Oltre la scienza sperimentale devono entrare in campo sia l’etica che la politica. Una scienza e tecnica onnipotenti che escludono la morale privata e pubblica sarebbero un preoccupante robot che minaccia il cosmo e l’umanità.

Al termine di questo punto, è opportuno stabilire i termini del rapporto tra ragione e fede. Già dalle chiare affermazioni del concilio Vaticano I (1870), sappiamo che la teologia cristiana – a differenza di quella islamica – non ritiene inutile (né tanto meno dannoso) il ricorso alla ragione, pur affermando che essa si accontenta di mettere in luce il senso profondo delle realtà naturali. E questo la ragione lo fa a parte ante (studiando i paeambula fidei, quali ad es. l’esistenza di un Dio creatore, provvidente e personale) e a parte post (organizzando in forma di concetti culturali le affermazioni “funzionali” della Scrittura).

B
Gli atei e agnostici fanno volentieri ricorso a confronti con un pensiero dei credenti che perlomeno è riduttivo o superato da tempo, o cadono in illogicità che ogni studente un po’ sagace potrebbe smascherare.

I – Secondo loro, la realtà che conosciamo, intesa come unitaria, non ha bisogno di un essere superiore, perché gli scienziati dubitano dell’esistenza di un momento originario (creazione concepita soltanto come primo inizio). Ma il concetto filosofico fondamentale di creaturalità è: dipendenza totale (non necessariamente iniziale ) nell’essere.
Osservando la situazione attuale della realtà, il grande matematico Kurt Gödel enunciò fin dal 1931 il “teorema d’incompletezza”, applicando il quale tentò la via ardua di una prova matematica dell’esistenza di Dio. Partendo dalla constatazione che una mente non potrà mai conoscere compiutamente come funziona la mente, e che la scienza non ce la farà mai a conoscere esattamente il mondo, concluse che c’è dell’ineffabile per la ragione, che deve esistere una componente di trascendenza, e che la prova dell’incompletezza dell’uomo richiede l’esistenza dell’Assoluto .

II – Nel confronto con la fede, trovano più conveniente combattere contro visioni della realtà che le grandi chiese hanno superato da decenni, se non proprio da secoli (un’esegesi e un’ermeneutica molto lontane dalle rinnovate “scienze bibliche”, fino a dare per accettato da tutti i credenti un “creazionismo” letteralista adatto a una mentalità infantile ), tale da far passare i cristiani come ingenui (anzi “cretini”!) e da consentire di assimilare le affermazioni delle fede a quelle delle più riprovevoli superstizioni. E non si tiene conto dell’apporto benefico alle scienze sperimentali, frutto delle intuizioni o ricerche di credenti, e persino di preti! Si usano con efficacia i “luoghi comuni” più retrivi (come quello che afferma “La religione è sempre stata contraria alla scienza”).

III - Sembra che non si accorgano di questa contraddizione: mentre non riconoscono valore a ciò che supera i dati empirici (ciò sarebbe inutile vaniloquio metafisico!), deducono da questi fatti una teoria che si chiama “evoluzionismo”, ed assumono il caso come logica spiegazione della successione dei fatti. Perché s’insinua questa contraddizione? Scrive Francesco d’Agostino:
“Ciò che non tollero non è il darwinismo, ma l’uso ideologico che del darwinismo viene massicciamente fatto” quando si usa il prestigio della scienza “per veicolare ed avvalorare prospettive…filosofiche”; “Guai…a chi osi insistere nel distinguere il darwinismo come teoria scientifica dal naturalismo darwiniano come teoria filosofico-antropologica…”; “…l’esistenza di Dio, come non può essere provata scientificamente, così non può essere scientificamente confutata”.
A dire il vero, si può dimostrare che una cosa non esiste solo nel caso che si tratti di un evidente assurdo, di un “contraddittorio in se stesso” (il classico circolo quadrato). Ma questo sarebbe già un passare dallo sperimentale al concettuale.

IV – Considerano unica la concezione categoriale del rapporto Creatore/creatura (Dio sarebbe la prima causa di una serie di cause immanenti e interverrebbe con atti diretti e storicamente distanziabili, che stanno accanto all’attività divina) invece della più profonda concezione trascendentale (Dio dà una volta per sempre al creato, alla creatura, il fondamento della capacità naturale di agire nel mondo e nella storia) .
Questa importante distinzione è da alcuni applicata alla spiegazione dell’origine di ogni individuo umano .

V – Analoga alla duplice comprensione (categoriale e trascendentale) dell’azione di Dio si può presentare la duplice interpretazione dell’Intelligent Design (progetto intelligente) :
a) Lettura particolarizzante propria del “movimento” omonimo, che prevede, in innumerevoli casi determinati, un’azione diretta di Dio che “modifica” il corso dell’evoluzione. Questa posizione – che sembra insistere su una concezione antropomorfica del divino – non è possibile provarla in ambito scientifico-sperimentale.
b) Lettura più universalizzante, che ipotizza per l’universo vivente un progetto intelligente realizzato all’interno della natura fisica, un agire di Dio dentro e attraverso le dinamiche evolutive . Ciò dipende dal principio secondo cui dove c’è un orientamento generale verso “status” più perfetti – benché coesistente con impulsi recessivamente negativi – è logico ipotizzare “filosoficamente” l’esistenza di un’intelligenza ordinatrice. Vale ancora il semplice esempio di una tipografia in cui molte migliaia di caratteri riproducono un canto della “Commedia”, benché alcune migliaia siano ancora in stato caotico. Sembra che la sottolineatura antiteistica delle posizioni recessive non tenga conto dell’incompiutezza essenziale degli esseri non assoluti (che noi chiamiamo “creature”).
In un contesto attuale possiamo interpretare – anche se l’ebraico nol consente - l’ “ad imaginem” del famoso “Faciamus hominem…” (Gen 1,26) come se esprimesse lo stadio finale dell’uomo: sulla linea del testo “profetico” di Rm 8.

C
Ci chiediamo alla fine: è possibile, precedentemente al dono della fede, risalire a Dio ?
L’Assoluto non è una presenza che si mostra nel mondo, ma un’esigenza che si dimostra a partire dal mondo e dall’uomo. Quindi tra le possibili “vie” a Dio:
• la ricerca della scienza sperimentale (rappresentata dalla “ragion pura” di Kant che è limitata al “fenomeno”) non dà alcun risultato, perché il “Totalmente Altro” è trascendente rispetto al mondo;
• l’esigenza che parte da una natura “contingente” (che non ha in se stessa la sua ragione di esistere), cioè il discorso della ragione filosofica sul mondo dimostra secondo alcuni (non secondo Kant, per il quale la ricerca del “noumeno” non approda a nulla) l’esistenza dell’Assoluto (vedi la strada percorsa da Goedel).
• L’esigenza dell’ordine morale che regoli le scelte dell’essere autocosciente e libero qual è l’uomo dimostra che deve esistere un regolatore (legislatore) al di sopra dei regolati (perché i ladri non si darebbero mai un comandamento che proibisce il furto); questa sarebbe la “ragion pratica” di Kant.
Da notare che nel linguaggio di Kant “pura” significa stingentemente dimostrativa, e “pratica” significa ricavabile dalla vita concreta che qualifica specificamente l’essere umano.

CONCLUSIONE DEL DISCORSO

Ritengo che sia opportuno, se non necessario, far emergere soprattutto il punto debole della propaganda antiteista.
Se è vero che noi credenti abbiamo voluto sovrapporre ingiustamente alle ricerche scientifiche il punto di vista della fede (la condanna di Galilei con argomenti biblici fasulli è esemplare!), i neo-positivisti pretendono di imporre a noi, che vogliamo “filosofare”, le ristrette regole della scientificità sperimentale.
In ambedue i casi si riscontra un errore di metodologia: lo sconfinamento di una scienza (in un caso la scienza biblica e teologica, nell’altro le scienze matematiche e sperimentali) nell’orto delle altre forme di conoscenza. Noi cristiani abbiamo chiesto scusa, ma quando faranno altrettanto gli infallibili scientisti?


APPENDICE - Dal quotidiano Avvenire del 17/12/2009
Gödel dimostrò che la trascendenza esiste
«La presentazione che è stata fatta del mio lavoro era senz'altro la più bella. Venivo indicato come lo scopritore della verità matematica più significativa del secolo. Non devi pensare che fossi descritto come il più grande matematico del secolo. La parola "significativa" dice piuttosto: "del più grande interesse al di fuori della matematica"». Così riferisce Kurt Gödel in una lettera alla madre Marianne, dopo l'ennesimo riconoscimento accademico al suo celebre teorema d'incompletezza. Sono trascorsi giusto 80 anni da questa straordinaria intuizione (secondo il biografo ufficiale Solomon Feferman, Gödel la concepì nel 1929 al tempo della tesi di laurea; la annunciò agli amici del Circolo di Vienna riuniti al Caffè Reichsrat il 26 agosto 1930 e la pubblicò nel 1931), il vecchio secolo è trapassato nel nuovo, ma quel teorema è rimasto la verità più significativa, feconda e suggestiva anche al di fuori della matematica o, come l'autore annota in altra circostanza, «la prima proposizione rigorosamente provata a proposito di un concetto filosofico». Il concetto filosofico in questione è eccellentemente rappresentato dall'antico paradosso di Epimenide, secondo cui la persona che dice: «Io sto mentendo», se dice il vero dice il falso e se dice il falso dice il vero. Gödel, similmente, inventando un linguaggio con cui l'aritmetica può parlare di se stessa (tecnica poi chiamata «gödelizzazione»), fa dire ad un enunciato aritmetico: «Io non sono dimostrabile». Non riesci a dimostrarlo, e l'enunciato si manifesta vero; riesci a dimostrare che non è dimostrabile, e vince ancora lui. In altre parole o, meglio, con le parole di Douglas Hofstadter (tra menti geniali, si sa, vige una certa affinità), «Gödel ha messo in evidenza che la dimostrabilità è una nozione più debole della verità». Al di là del rompicapo logico, comunque, tutte le volte che un soggetto tenta di rivolgere la ricerca su se stesso (autoreferenzialità), il teorema d'incompletezza è lì a provare che una mente non potrà mai conoscere compiutamente come funziona la mente; che un io non arriverà mai a comprendere in modo esauriente la propria storia; che la scienza non ce la farà mai a conoscere esattamente il mondo, dacché si è appurato che il soggetto conoscente è parte integrante del processo conoscitivo. In ognuna di queste dinamiche c'è qualcosa che sfugge costitutivamente, inafferrabile come l'orizzonte. La prova d'incompletezza è anche la prova che c'è dell'ineffabile per la ragione. In molti - su tutti Roger Penrose - hanno usato il teorema di Gödel per dimostrare la superiorità del pensiero umano nei confronti dell'intelligenza meccanizzata delle macchine. È lecito, ma in Gödel c'è qualcosa di molto più profondo. C'è un dato ontologico: «Che non esista la mente separata dalla materia è un pregiudizio del nostro tempo, che sarà refutato scientificamente». C'è una certezza non-riduzionista: «L'affermazione che il nostro io consista di molecole di proteine mi sembra una delle più ridicole mai enunciate». C'è una componente di trascendenza: «Oggi, il razionalismo è compreso in un senso assurdamente ristretto. Esso non deve far intervenire solo concetti logici». Amico intimo di Einstein, autore di una prova matematica dell'esistenza di Dio non edita in vita, turbato dall'ossessione di essere avvelenato - alla morte nel 1978 il suo peso corporeo era poco più di 30 chilogrammi -, Gödel riporta, con numeri e parole, un'esperienza di Assoluto. Quell'Assoluto che manca alla dimostrata incompletezza dell'uomo.
Andrea Vaccaro

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