lunedì 13 maggio 2019

Crisi culturale



UNA CRISI DI CIVILTA’

E’ in atto una crisi epocale in antropologia, che si manifesta sia nell’ampia “opinione pubblica”, sia nelle massime espressioni istituzionali della società civile (basta seguire i telegiornali o i “social media”), per la quale non sono riconosciuti i solidi principi tradizionali sull’uomo e sull’umanità. Si giunge così a un riduzionismo nella facoltà del “pensare” profondo che ci distingue, come simili ma non uguali, dagli altri viventi animali. Facciamo velocissimo cenno a cinque atteggiamenti o modi di “filosofare” che sembrano indicativi del disagio.
- Egocentrismo. Secondo il quale si pensa e si provvede alla realizzazione dell’individuo senza tener conto che questa si attua solo nel rapporto essenziale e necessario con la comunità umana; la quale invece è considerata un corpo estraneo e aggressivo. Ricordiamo quello che Guicciardini chiamava “il suo particulare”; pensiamo piuttosto allo schema “Io-Tu-Noi” di Martin Buber.
- Momentismo. Consiste nella progettazione di sé astorica, ignorando il passato culturale e concependo ottimisticamente il futuro in chiave fantasmagorica. Pensiamo alla frase che Faust (nell’Urfaust) pronuncia sulla proposta, peraltro finale, di Mefistofele: “All’attimo direi: sei così bello, fermati!”
- Arazionalsimo. Mi sembra qui di dovere segnalare l’atteggiamento di giudicare sé stessi ed ogni realtà con la sola chiave dell’istintività, come fa il sempre più esaltato Nietzsche nella glorificazione del dionisismo orgiastico.
- Utilitarismo. Che, togliendo la consistenza di “valore” alla categoria di “buono” e riconoscendo solo quella di “utile” e “piacevole”, considera le persone come pedine in una mondiale scacchiera economica. Come hanno fatto, in ambiente molto lontano dal nostro, Bentham e i due James e John Stuart Mill.
- Antropomonismo. Il quale si presenta con la tesi che nella costituzione dei “valori” non si possa attingere  anche a un livello superiore alla ragione dell’uomo. Come dice Kant, il quale attribuisce all’Illuminismo il merito di redimere l’uomo dalla “minorità”, cioè da “l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro”. E’ qui necessario introdurre una distinzione tra ragione e rivelazione. Il grande filosofo assume una concezione così “stretta” della ragione (“pura”) per cui esclude che con essa si possa provare  l’esistenza di Dio o altre realtà importanti, che (così dice) la Provvidenza ha voluto legare alla “naturale intelligenza degli uomini”. Quindi Kant, che era un devoto “pietista”,  non dava spazio alla teologia naturale, ma sapeva che la fede si deve dare alla rivelazione di Dio. Possiamo esserne più convinti se diamo uno sguardo a un’eredità teologica dell’Illuminismo che è il “deismo” di Voltaire, chiedendoci se, in questi ultimi secoli, l’umanità ha fatto proficui passi da gigante per raggiungere “le magnifiche sorti e progressive” (espressione ironica già in Leopardi) al fine di liberarsi da un Dio  personale, provvidente e normatore!

                                                                                     

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