UNA CRISI DI CIVILTA’
E’ in atto una crisi epocale in
antropologia, che si manifesta sia nell’ampia “opinione pubblica”, sia nelle
massime espressioni istituzionali della società civile (basta seguire i
telegiornali o i “social media”), per la quale non sono riconosciuti i solidi
principi tradizionali sull’uomo e sull’umanità. Si giunge così a un
riduzionismo nella facoltà del “pensare” profondo che ci distingue, come simili
ma non uguali, dagli altri viventi animali. Facciamo velocissimo cenno a cinque
atteggiamenti o modi di “filosofare” che sembrano indicativi del disagio.
- Egocentrismo. Secondo il quale
si pensa e si provvede alla realizzazione dell’individuo senza tener conto che
questa si attua solo nel rapporto essenziale e necessario con la comunità
umana; la quale invece è considerata un corpo estraneo e aggressivo. Ricordiamo
quello che Guicciardini chiamava “il suo particulare”; pensiamo piuttosto allo
schema “Io-Tu-Noi” di Martin Buber.
- Momentismo. Consiste nella
progettazione di sé astorica, ignorando il passato culturale e concependo
ottimisticamente il futuro in chiave fantasmagorica. Pensiamo alla frase che
Faust (nell’Urfaust) pronuncia sulla proposta, peraltro finale, di Mefistofele:
“All’attimo direi: sei così bello, fermati!”
- Arazionalsimo. Mi sembra qui di
dovere segnalare l’atteggiamento di giudicare sé stessi ed ogni realtà con la
sola chiave dell’istintività, come fa il sempre più esaltato Nietzsche nella
glorificazione del dionisismo orgiastico.
- Utilitarismo. Che, togliendo la
consistenza di “valore” alla categoria di “buono” e riconoscendo solo quella di
“utile” e “piacevole”, considera le persone come pedine in una mondiale scacchiera
economica. Come hanno fatto, in ambiente molto lontano dal nostro, Bentham e i
due James e John Stuart Mill.
- Antropomonismo. Il quale si
presenta con la tesi che nella costituzione dei “valori” non si possa
attingere anche a un livello superiore
alla ragione dell’uomo. Come dice Kant, il quale attribuisce all’Illuminismo il
merito di redimere l’uomo dalla “minorità”, cioè da “l’incapacità di valersi
del proprio intelletto senza la guida di un altro”. E’ qui necessario
introdurre una distinzione tra ragione e rivelazione. Il grande filosofo assume
una concezione così “stretta” della ragione (“pura”) per cui esclude che con
essa si possa provare l’esistenza di Dio
o altre realtà importanti, che (così dice) la Provvidenza ha voluto
legare alla “naturale intelligenza degli uomini”. Quindi Kant, che era un
devoto “pietista”, non dava spazio alla
teologia naturale, ma sapeva che la fede si deve dare alla rivelazione di Dio.
Possiamo esserne più convinti se diamo uno sguardo a un’eredità teologica
dell’Illuminismo che è il “deismo” di Voltaire, chiedendoci se, in questi
ultimi secoli, l’umanità ha fatto proficui passi da gigante per raggiungere “le
magnifiche sorti e progressive” (espressione ironica già in Leopardi) al fine
di liberarsi da un Dio personale,
provvidente e normatore!
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