lunedì 20 luglio 2015

Un concilio da recepire



SI DOVEVA FARE, ….NON SI E’ FATTO

            I
“Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, ….finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio…” (Ef 4,5.13)
Questo “proclama” paolino ci lascia intendere alcune cose:
-          che la fede cristiana è una e unica
-          che la sua unità può essere anche declinata, per i “tutti”,  come diversità
-          che la sua unità è da conquistarsi nel cammino della storia, fino all’eschaton, quando non serviranno più i teologi

Il “mistero” di Dio è quindi unico, ma la sua intelligenza è commisurata ai limiti delle menti umane (“quidquid recipitur…”). La fede è unica, ma le teologie sono storicamente molteplici, per cultura (semitica, greca….); nella seconda di queste possono essere diverse (alessandrina. antiochena…); nell’alessandrina possono essere divergenti (Origene. Atanasio….)
Ma ciò non deve destare stupore, se si pensa che spesso i veterotestamentari libri storici hanno una diversa teologia dai libri profetici; che i vangeli canonici sono quattro, dove la figura di Cristo è ben diversa tra quella di Matteo e quella di Giovanni…; che le risposte ai problemi posso distanziarsi nei tempi di composizione dei libri, come nell’attesa della parusia….Ma molti catechisti e omileti non avevano mai letto tutta la Bibbia, tantomeno nei testi originali (si ricordino le diverse interpreazioni di Gen 3,15: ipse o ipsa)

Queste considerazioni conducono alla scelta del punto di partenza della ricerca teologica:
-          Partenza dalle affermazioni del “magistero dei pastori”; il quale interviene solitamente in chiave di difesa contro le interpretazioni ereticali. Questo avrebbe dovuto farci comprendere che la teologia insegnata, nelle scuole cattoliche, a noi fino al Vaticano II era presentata come l’unica ed eterna nei due millenni, mentre era strutturata in chiave “controversistica”, o apologetica (si pensi alla teologia del 1600); e quando si gioca al “tiro della fune” è difficile arrestarsi nel giusto mezzo. Né si teneva conto che uno stesso vocabolo (ad esempio hypostasis) aveva cambiato significato nel succedersi dei massimi concili ecumenici.
-          Partenza dalla rivelazione contenuta nella Scrittura, sorgente assolutamente prioritaria, che poi incanala l’acqua nei diversi fiumi della tradizione; ma si pensava che il magistero fosse più semplice, più chiaro, più fisso e quindi sicuro. Mettiamo in confronto un “anathema sit” di Trento con una lettera di san Paolo… (mentre, sia detto per inciso, il primo significato di quel sostantivo è: “offerta votiva”)
Non dico con questo, come gli irenisti per vocazione fanno, che precedentemente tutti i torti erano dei riformati, e ora sono tutti di noi cattolici (dimenticando la “via media” del card. Newman, ancora anglicano).. Dico solo quello che Paolo VI ha fatto capire: il Vaticano II ha inteso riflettere, più che sulle storture degli altri, sulla completezza e giustezza della propria autocomprensione di Chiesa.
Oggi infine Papa Francesco ci spinge a integrare l’autocomprensione coll’apertura missionaria (come se la Chiesa non dovesse eternamente fissare l’ombelico, ma guardare a dove mettere i piedi).

            II
Il Vaticano II era stato assolutamente chiaro nella “Dei verbum”, n. 24:  “Lo studio delle sacre scritture sia come l’anima della sacra teologia”. Fino a precisarne la metodologia (cfr “Optatam totius”, n. 16): Nell’insegnamento della teologia dogmatica (ora si direbbe: nell’architettare un trattato teologico):
-          prima vengano proposti  gli stessi temi biblici
-          poi il pensiero dei santi padri (di Oriente e di Occidente. si noti la precedenza) e l’ulteriore storia del dogma
-          poi l’aspetto speculativo, ”avendo per maestro san Tommaso”  (culto che, dopo un generale fuggi-fuggi, è tornato quasi ovunque a irrigare i sentieri dei teologi)
-          poi l’applicazione nella sacra liturgia
-          poi l’applicazione nella vita (soprattutto “morale”) della Chiesa delle verità eterne, tenendo presenti le condizioni storiche attuali e curando il modo di esprimerle appropriatamente.

Perché allora queste prescrizioni sono state trascurate?
Perché, dopo la crisi protestante, avevamo un sacro terrore della Scrittura. Esempi: Nel fondamentale inno prepaolino di Fil 2,6-11 si parla di morphé theou e di morphé doulou. Ebbene, per premunire il semplice fedele dalla tentazione anti-cristologica, si traduceva: “natura divina / condizione di servo”. Nell’ultima traduzione CEI giustamente si usa in ambedue i casi “condizione”. Quanti pastori erano in grado di spiegare che “sostanzialmente” morphé è sinonimo di “immagine” e non deve essere letto come termine “duramente” ontologico?
Perché i vescovi (specialmente sud-europei, sud-americani…) vivevano nell’ hortus conclusus della vecchia teologia e non hanno sentito il bisogno, anzi il dovere, di presentare con la loro autorità l’impostazione dell’ultimo concilio
Perché era diffusa la cronica inerzia catechistica e pastorale (“quieta non movere”)
Perché sarà in ogni epoca più difficile (meno devozionistico e popolare) spiegare un testo di san Giovanni, nei confronti di portare un pellegrinaggio a Lourdes; sarà meno entusiastico “conoscere” la Madre del Signore nei due ultimi evangelisti, nei confronti dello sviscerare le rispetitive (ma anche apocalitticamente suggestive) “rivelazioni” di un cosiddetto veggente di Medjugorje; dove chi ha già una fede fondata sulla roccia può esultare camminando sui soffici prati della devozione, ma chi va per puro sensazionalismo si basa su un'esangue devozione.


Mi chiedo se, ancora adesso, per qualche pastore non sarebbe consigliabile “arricchire” la veglia presso la casa del defunto con la lettura di testi biblici (es.: Gv 11; Rm 8; 1Cor 15), che sono l’unico antidoto contro la massima disaffezione dei nostri “credenti” per la “teologia dei novissimi”
 

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