SI DOVEVA FARE, ….NON SI E’ FATTO
I
“Un solo
Signore, una sola fede, un solo battesimo, ….finché arriviamo tutti all’unità
della fede e della conoscenza del Figlio di Dio…” (Ef 4,5.13)
Questo “proclama” paolino ci
lascia intendere alcune cose:
-
che la fede cristiana è una e unica
-
che la sua unità può essere anche declinata, per
i “tutti”, come diversità
-
che la sua unità è da conquistarsi nel cammino
della storia, fino all’eschaton,
quando non serviranno più i teologi
Il “mistero”
di Dio è quindi unico, ma la sua intelligenza è commisurata ai limiti delle
menti umane (“quidquid recipitur…”).
La fede è unica, ma le teologie sono storicamente molteplici, per cultura
(semitica, greca….); nella seconda di queste possono essere diverse
(alessandrina. antiochena…); nell’alessandrina possono essere divergenti
(Origene. Atanasio….)
Ma ciò non deve destare stupore, se si pensa che spesso i
veterotestamentari libri storici hanno una diversa teologia dai libri
profetici; che i vangeli canonici sono quattro, dove la figura di Cristo è ben
diversa tra quella di Matteo e quella di Giovanni…; che le risposte ai problemi
posso distanziarsi nei tempi di composizione dei libri, come nell’attesa della
parusia….Ma molti catechisti e omileti non avevano mai letto tutta la Bibbia, tantomeno nei
testi originali (si ricordino le diverse interpreazioni di Gen 3,15: ipse o ipsa)
Queste
considerazioni conducono alla scelta del punto di partenza della ricerca
teologica:
- Partenza dalle affermazioni del “magistero dei pastori”;
il quale interviene solitamente in chiave di difesa contro le interpretazioni
ereticali. Questo avrebbe dovuto farci comprendere che la teologia insegnata,
nelle scuole cattoliche, a noi fino al Vaticano II era presentata come l’unica
ed eterna nei due millenni, mentre era strutturata in chiave
“controversistica”, o apologetica (si pensi alla teologia del 1600); e quando si
gioca al “tiro della fune” è difficile arrestarsi nel giusto mezzo. Né si
teneva conto che uno stesso vocabolo (ad esempio hypostasis) aveva cambiato significato nel succedersi dei massimi concili
ecumenici.
- Partenza dalla rivelazione contenuta nella Scrittura,
sorgente assolutamente prioritaria, che poi incanala l’acqua nei diversi fiumi
della tradizione; ma si pensava che il magistero fosse più semplice, più chiaro,
più fisso e quindi sicuro. Mettiamo in confronto un “anathema sit” di Trento con una lettera di san Paolo… (mentre, sia
detto per inciso, il primo significato di quel sostantivo è: “offerta votiva”)
Non dico con questo, come gli
irenisti per vocazione fanno, che precedentemente tutti i torti erano dei
riformati, e ora sono tutti di noi cattolici (dimenticando la “via media” del
card. Newman, ancora anglicano).. Dico solo quello che Paolo VI ha fatto
capire: il Vaticano II ha inteso riflettere, più che sulle storture degli
altri, sulla completezza e giustezza della propria autocomprensione di Chiesa.
Oggi infine Papa Francesco ci
spinge a integrare l’autocomprensione coll’apertura missionaria (come se la Chiesa non dovesse
eternamente fissare l’ombelico, ma guardare a dove mettere i piedi).
II
Il Vaticano II
era stato assolutamente chiaro nella “Dei
verbum”, n. 24: “Lo studio delle
sacre scritture sia come l’anima della sacra teologia”. Fino a precisarne la
metodologia (cfr “Optatam totius”,
n. 16): Nell’insegnamento della teologia dogmatica (ora si direbbe: nell’architettare
un trattato teologico):
-
prima vengano proposti gli stessi temi biblici
-
poi il pensiero dei santi padri (di Oriente e di
Occidente. si noti la precedenza) e l’ulteriore storia del dogma
-
poi l’aspetto speculativo, ”avendo per maestro
san Tommaso” (culto che, dopo un
generale fuggi-fuggi, è tornato quasi ovunque a irrigare i sentieri dei
teologi)
-
poi l’applicazione nella sacra liturgia
-
poi l’applicazione nella vita (soprattutto “morale”)
della Chiesa delle verità eterne, tenendo presenti le condizioni storiche
attuali e curando il modo di esprimerle appropriatamente.
Perché allora
queste prescrizioni sono state trascurate?
Perché, dopo la crisi
protestante, avevamo un sacro terrore della Scrittura. Esempi: Nel fondamentale
inno prepaolino di Fil 2,6-11 si parla di morphé
theou e di morphé doulou. Ebbene,
per premunire il semplice fedele dalla tentazione anti-cristologica, si
traduceva: “natura divina / condizione di servo”. Nell’ultima traduzione CEI giustamente
si usa in ambedue i casi “condizione”. Quanti pastori erano in grado di
spiegare che “sostanzialmente” morphé
è sinonimo di “immagine” e non deve essere letto come termine “duramente” ontologico?
Perché i vescovi (specialmente
sud-europei, sud-americani…) vivevano nell’ hortus
conclusus della vecchia teologia e non hanno sentito il bisogno, anzi il
dovere, di presentare con la loro autorità l’impostazione dell’ultimo concilio
Perché era diffusa la cronica
inerzia catechistica e pastorale (“quieta
non movere”)
Perché sarà in ogni epoca più
difficile (meno devozionistico e popolare) spiegare un testo di san Giovanni,
nei confronti di portare un pellegrinaggio a Lourdes; sarà meno entusiastico
“conoscere” la Madre
del Signore nei due ultimi evangelisti, nei confronti dello sviscerare le
rispetitive (ma anche apocalitticamente suggestive) “rivelazioni” di un
cosiddetto veggente di Medjugorje; dove chi ha già una fede fondata sulla roccia può esultare camminando sui soffici prati della devozione, ma chi va per puro sensazionalismo si basa su un'esangue devozione.
Mi chiedo se, ancora adesso, per
qualche pastore non sarebbe consigliabile “arricchire” la veglia presso la casa
del defunto con la lettura di testi biblici (es.: Gv 11; Rm 8; 1Cor 15), che
sono l’unico antidoto contro la massima disaffezione dei nostri “credenti” per
la “teologia dei novissimi”
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