CHIESA E MODERNITA’
Storia dei difficili rapporti della Chiesa con alcune correnti della modernità
Mons. Antonio Contri
Docente emerito di teologia
PARTE SECONDA
Programma ideale
Cap. I: Nazionalismi e totalitarismi
§ 1: Benedetto XI
§ 2: Pio XI
§ 3: Pio XII
Cap. II: Preistoria e storia del Vaticano II
§ 1: Idee movimenti che portarono al concilio
§ 2: Giovanni XXIII e inizio del concilio
§ 3: Paolo VI e continuazione del concilio
§4: I contenuti del concilio
§ 5: Il postconcilio con PaoloVI
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BIBLIOGRAFIA
AA. VV., La costituzione dogmatica sulla Chiesa, Elle Di Ci, Torino-Leumann, 19663
AA. VV., Discorsi di Massimo IV al Concilio, Ed. Dehoniane, Bologna 1968
G. MARTINA, La Chiesa nell’età del totalitarismo, (volume quarto), Morcelliana, Brescia 19794
S. TRAMONTIN, Un secolo di storia della Chiesa. Da Leone XIII al Concilio Vaticano II (2 voll.), Ed. Studium, Roma 1980
R. KOTTJE – B. MOELLER (cur.), Storia ecumenica della Chiesa , vol. III: Età moderna, Queriniana, Brescia 1981
R. GIBELLINI, La teologia del XX secolo, Queriniana, Brescia 1992
AA. VV., Storia della teologia, vol. III (cur. R. Fisichella), Ed. Dehoniane, Roma-Bologna 1996.
G. ADORNATO, Paolo VI. Il coraggio della modernità, San Paolo, Cinisello Balsamo 2008.
Capitolo Primo
NELL’EPOCA DEI NAZIONALISMI E TOTALITARISMI
Un’osservazione generale.
Fino a Pio XII giustamente si esaminano i decenni sulla misura del Papa “regnante”, in quanto fin dalla riforma gregoriana (Gregorio VII, 1073-85) l’autorità suprema della Chiesa veniva ristretta alla sola sua persona. Fu l’intuizione profonda di Giovanni XXIII che, secondo la tradizione invalsa nel primo millennio cristiano e comprendente la gloriosa esperienza orientale, ampliò la concezione della suprema autorità anche al Collegio dei vescovi, particolarmente rappresentato nei Concili ecumenici. Ecco perché dopo di lui il riferimento è al Concilio, nel quale agiscono in maniera “collegiale”, ma non indistinta, sia il vescovo di Roma sia tutti gli altri vescovi dell’ecumene, considerati rappresentanti diretti di Cristo.
Paragrafo Primo
NEL PONTIFICATO DI BENEDETTO XV
Il moderato Giacomo Della Chiesa, Benedetto XV (1914-22), assunse la funzione di equilibratore delle esagerazioni che si erano manifestate nella giusta lotta contro il nazionalismo, sotto il pontificato di Pio IX, e nell’altrettanto giusta lotta antimodernista, durante il pontificato di Pio X. Così pure orientò l’azione della Santa Sede alla ricomposizione dei dissidi (o delle diffidenze) con gli Stati (famoso quello con la Francia e significativo l’altro con l’Italia) e con i movimenti laicali di “azione cattolica”, sindacali e politici (nel 1919 fu approvato il Partito Popolare). Innovativa fu anche la sua attenzione al Cristianesimo orientale e protestante e alle missioni.
Nel 1919 intervenne l’abrogazione definitiva del “Non expedit” (che vigeva dal 1871); nel 1920 furono revocate le dure prescrizioni per la visita a Roma dei sovrani stranieri. Alle proposte di conciliazione con lo Stato liberale italiano avanzate dal Vaticano (1919) si oppose fermamente Vittorio Emanuele III, in quanto in esse si ipotizzava la stesura di un concordato.
La sua vita precedente portava naturalmente a questi atteggiamenti distensivi: nato nel 1854 a Genova, fece la carriera diplomatica sulla linea del card. Rampolla, segretario di stato di Leone XIII, e fu “allontanato” con la nomina ad arcivescovo di Bologna nel 1907, ma solo pochi mesi prima dell’elezione al supremo pontificato fu nominato cardinale.
Nel 1917 si promulgò il Codice di Diritto Canonico (che era in preparazione da 13 anni) e nel 1918 si pose mano alla riforma della Curia.
Nella sua prima enciclica”Ad beatissimi”, fece intendere che prendeva le distanze sia dalle esagerazioni moderniste, sia da quelle degli integralisti, loro oppositori.
Il Papa condannava le posizioni di “immoderato nazionalismo” insieme con le aggressioni alle nazioni (per prima quella del Belgio: 1915)
Sul gravissimo problema della guerra, il campo cattolico (in Italia e all’estero) si divideva tra neutralisti e interventisti. Questi ultimi rispolveravano la tesi della “guerra giusta”, che tanto piaceva ai nazionalisti di professione. Alcuni grandi vescovi (per es. il card. Mercier) erano vicini al pensiero del Papa, il quale, ricevendo non poche critiche durante la sua vita (per la sua idea di imparzialità, che veniva presentata come neutralità se non proprio come disfattismo), prese una decisa posizione globalmente negativa sulla guerra. Basterà citare alcune sue frasi: “La guerra è un’orrenda carneficina che disonora l’Europa” (1915); “La guerra è il suicidio dell’Europa civile”, e “è la più fosca tragedia della follia umana” (ambedue del 1916); oltre la famosa definizione di “inutile strage” (nella nota del 1 agosto 1917 alle potenze belligeranti, che fu fraintesa da alcuni come filogermanica). Ma le sue proposte, articolate e lungimiranti, non furono accettate; anche perchè l’infernale macchina della guerra era ormai scesa in campo in tutto il continente e troppi erano gli interessi di varia natura che sottostavano. Solo pochi giorni prima della morte poté avere un riconoscimento delle sue sagge posizione da parte della Società delle nazioni.
Il governo italiano, come reazione alle posizioni “pacifiste” di Benedetto, fu tra i più contrari all’inserimento della Santa Sede nella trattative di pace (1918), anche perché si pensava che ciò avrebbe potuto fornire al Vaticano motivi di rivendicazione sulla non ancora risolta “questione romana”.
Paragrafo Secondo
NEL PONTIFICATO DI PIO XI
Achille Ratti non sembrava la migliore scelta per il pontificato romano: aveva percorso gli anni della formazione tra studi e responsabilità culturali (bibliotecario a Milano e a Roma), piccole attività di pastorale, carriera diplomatica, breve episcopato milanese (per cui adottò argutamente il motto “Raptim transiit” = Passò velocemente).
Ma aveva un carattere forte e un’alta concezione dei suoi doveri come rappresentante di Cristo e difensore ad ogni costo e con tutti i mezzi dei diritti di Dio. La sua forza si espresse anche durante le varie gravi malattie che lo fiaccarono negli anni 36-37-38-39 e che impedirono ai suoi interventi di portare tutti gli effetti voluti.
I suoi fini erano spirituali, ma sapeva che lo spirituale deve tradursi in concrete forme di strutture esterne (si tenga presente che allora non era maturata l’idea della relativa autonomia dell’ordine temporale, di cui tratterà il n. 36 della “Gaudium et spes”). Riteneva che l’inserimento dei diritti del Regno di Cristo nella società degli uomini avvenisse soprattutto con due mezzi:
* buoni concordati con gli stati (ne furono stipulati formalmente dieci)
* organizzazione delle forze dei laici cattolici.
Atteggiamenti
Era portato a tenersi fuori dalle discussioni tra le varie correnti del pensiero cattolico del tempo, e a non parteggiare per le opposte posizioni politiche (che invece cercava di conciliare).
I suoi interventi anche più “politici” erano ispirati da profonde considerazioni religiose e pastorali (addirittura soprannaturali). Significative sono le sue numerosissime udienze (ogni mercoledì per gli sposi novelli) in cui sapeva usare un linguaggio semplice.
Nutriva un sottile atteggiamento di pessimismo sulle novità della cultura “moderna”. Aveva in partenza fiducia nei poteri politici degli stati, ma in seguito (come vedremo) ne fu deluso e amareggiato.
Problemi e settori
• Istituì nel 1925 la festività di Cristo Re (Quas primas), motivandola con i concetti (piuttosto giuridici) che erano comuni alle idee teologiche del tempo, considerando la Chiesa cattolica una “società perfetta” (dotata dei “tre poteri”) alla pari con gli stati moderni; teologia molto lontana da quella visione escatologica della regalità che è presentata nei testi attuali della XXXIV domenica durante l’anno liturgico.
• Favorì le associazioni di Azione cattolica (fu chiamato a ragione il Papa dell’Azione cattolica), bene ordinate sotto la guida dei pastori, e lo sviluppo delle missioni
• Emanò (fra le altre) tre encicliche su problemi capitali: sull’educazione della gioventù (Divini illius Magisteri: 1929), sul Matrimonio cristiano (Casti connubii: 1930), sui problemi sociali (Quadragesimo anno: 1931).
I difficili rapporti con gli stati guidati da regimi totalitari
Ebbe la ventura di misurarsi con tre regimi dittatoriali, sui quali diciamo qualcosa, ben sapendo che non fa buona storia chi giudica le situazioni di allora con la mentalità odierna.
1 – Fascismo
La famosa “questione romana” si trascinava dal fatidico 1870 dividendo e opponendo aspramente i cattolici agli anticlericali. Le posizioni sull’argomento erano molto diverse anche all’interno del mondo cattolico italiano.
Pio XI faceva rilevare che il suo concordato non era stabilito col regime fascista, ma con lo Stato italiano. Disse che, per ottenere una soluzione cristiana sull’educazione della gioventù e sulla dignità del matrimonio, era disposto anche a trattare col diavolo… Mussolini parlava del Papa come de “l’uomo del destino”. Vediamo se si trova quella frase (che viene impropriamente ristretta a “l’uomo della Provvidenza”) nel discorso che il Papa tenne il 13 febbraio nell’udienza all’Università cattolica di Milano:“…il momento nel quale la divina Provvidenza Ci ha chiamato a compiere azioni e a dar corso ad avvenimenti che certissimamente (….) sono destinati a produrre (….) frutti preziosi per la gloria di Cristo Re, per l’onore della Santa Madre Chiesa, per il bene delle anime, per il bene d’Italia (….)”. “Dobbiamo dire che siamo stati anche dall’altra parte nobilmente assecondati. E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare (….). E con la grazia di Dio, con molta pazienza, con molto lavoro, con l’incontro di molti e nobili assecondamenti, siamo riusciti (….) a conchiudere un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo tra i migliori che si son fin qua fatti; ed è con profonda compiacenza che crediamo di avere con esso ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio”. Questo brano – insieme con la frase del card. Gasparri “Ringrazio la Provvidenza per aver mandato quest’uomo” - deve esser letto nel concetto teologico classico della Provvidenza: l’azione di Dio che manda al suo popolo momenti di gloria e permette tormenti di persecuzione.
La preparazione fu lunga ed estenuante: le trattative furono interrotte almeno tre volte.
La conciliazione fu realizzata il 11-2-1929 con tre documenti:
* il Trattato: proclamazione della piena sovranità della Santa Sede nello Stato della Città del Vaticano;
* il Concordato, che riguardava quattro elementi: riconoscimento del cattolicesimo come religione dello Stato; estensione dell’appoggio dello Stato alla Chiesa; garanzie dell’educazione della gioventù, disciplina del matrimonio;
* la Convenzione finanziaria: in sostituzione della non gradita “legge delle Guarentigie” e in restituzione di una somma per compenso delle moltissime spoliazioni di beni subite nei decenni precedenti dalla Chiesa italiana.
I benefici per la Chiesa italiana non furono pochi né irrilevanti.
Mussolini era un ateo e anticlericale, che però aveva capito quale beneficio avrebbe potuto trarre nell’opinione pubblica interna ed esterna dalla soluzione della “questione romana” e dalla pace religiosa. I dittatori sono soliti usare con gli inermi il doppio registro (prima e dopo il contratto) che diventa inevitabilmente un tragico doppio gioco.
Purtroppo già nel 1931 si venne a contestazioni molto acute sull’applicazione delle “libertà” ottenute dalla Chiesa, soprattutto sull’educazione della gioventù, sull’attività delle associazione cattoliche, sulla dignità del matrimonio (qualche anno dopo: problema dei matrimoni fra ariani ed ebrei).
Il Papa reagì con la coraggiosa enciclica “Non abbiamo bisogno” (1931). Secondo alcuni studiosi, nel decennale del 1929, il Papa quasi morente si apprestava ad emanare, in occasione del raduno dei vescovi italiani, una nuova durissima requisitoria contro il sistema fascista (ed anche nazista) ed una denuncia del Concordato.
2 – Nazionalsocialismo (Nazismo)
Anche per la Germania si ripetono alcune infauste situazioni dell’Italia:
• Trattative lunge ed estenuanti
• Divisione, specialmente in un primo tempo, dei cattolici nel giudicare il Nazismo
• Considerazione del sistema totalitario come unico baluardo all’avanzata del comunismo ateo
• Doppio gioco del regime prima e dopo il Concordato.
Il ministro H. Keller affermò che il cristianesimo positivo è il nazionalsocialismo, il vero cristianesimo è rappresentato dal partito, il Fuehrer è il protagonista di una nuova rivelazione!
Per non dilungarci, diremo soltanto che Pio XI emanò la dura enciclica “Mit brennender Sorge” (1937), dichiarò che “anche noi siamo semiti”, e durante la visita trionfale di Hitler a Roma si ritirò a Castelgandolfo e deplorò che nella città eterna fosse inalberata l’insegna di un’altra croce che non era quella di Cristo.
3 – Comunismo ateo
Col bolscevismo evidentemente non ci fu alcun concordato (anche perché l’URSS non era abitata da cattolici)
Famosa l’enciclica “Divini Redemptoris” (1937).
Da notare che Pio XI nel 1926 condannò il movimento francese integrista antirepubblicano dell’Action française di Maurras; criticò alcuni metodi usati dai franchisti (insieme a quelli generalmente persecutòri dei loro oppositori) e mantenne un incaricato d’affari coi governativi spagnoli.
Paragrafo Terzo
NEL PONTIFICATO DI PIO XII
1 – Personalità e formazione
Dotato di un’intelligenza superiore, ebbe una concezione altissima della sua autorità, pure unita a un’attenzione acutissima al lato religioso dei problemi e a una chiara tendenza al misticismo, che lo portarono ad esercitare l’autorità molto spesso da solo (alla morte del card. Maglione, nel 1944, non sentì il bisogno di nominare un Segretario di Stato).
Ebbe un curricolo di tutto rispetto: entrato da giovane nella Segreteria di Stato, fu nunzio in Baviera e diede la sua opera ai concordati, fu Segretario di Stato e legato pontificio. Fu eletto al primo giorno degli scrutini; mentre incombeva il pericolo di una nuova guerra e la chiesa era sempre più perseguitata.
2 – Problemi affrontati
a/ La guerra
Famosa resta la frase scritta nel radiomessaggio del 24 agosto 1939: “Nulla è perduto con la pace; tutto può esserlo con la guerra”. Importante è il suo pensiero espresso nella prima enciclica “Summi pontificatus” del 20 ottobre di quell’anno e nel susseguente radiomessaggio natalizio.
Intervenne con note diplomatiche per allontanare la catastrofe; in documenti col Re e col Capo del governo, cercò di tenere lontana l’Italia dalla guerra (tanto che l’ambasciatore presso la Santa Sede Alfieri lo accusò di disfattismo).
La parola chiave non era neutralità, ma imparzialità, pur nella difficoltà di essere compreso dai belligeranti.
Iniziata la guerra, si profuse nell’assistenza ai colpiti dal flagello, nell’attiva facilitazione di comunicazione tra i prigionieri e le loro famiglie, nella facilitata accoglienza a politici anche non cristiani invisi al regime, nella distribuzione di soccorsi materiali ai bombardati, tanto che fu chiamato “salvatore di Roma”.
Terminata la guerra, istituì organismi adatti: Pontificia commissione profughi, Pontificia commissione reduci, Pontificia commissione (poi: opera) di assistenza.
b/ Il nazismo
Da Segretario era stato l’ispiratore delle forti prese di posizione di Pio XI.. Se in un primo periodo cercò la concordia col regime anticristiano, lo fece per suggerimento dell’episcopato tedesco, che consigliava di non urtarsi coi potenti per non perdere quelle piccole garanzie che erano contenute nel concordato stipulato dal predecessore. Condannò le esorbitanze morali, quali l’eutanasia e la sterilizzazione, e non appoggiò quella frangia del clero (vescovi, storici e teologi) che era in discreta relazione col nazismo.
c/ I regimi dell’Est
Si preoccupò nel dopoguerra per l’impostazione esclusivista delle cinque Grandi potenze vincitrici (Stati uniti, Unione sovietica, Cina, Inghilterra, Francia), fra le quali iniziava il contrasto tra gli orientamenti occidentale e orientale, fino ad arrivare alla lunga e pericolosa “guerra fredda”.
La Russia aveva cominciato l’opera di sovietizzazione e di annessione di stati e territori (con conseguenze di vera persecuzione per es. per gli “uniati” dell’Ucraina) e aveva imposto il suo sistema negli stati satelliti (si pensi alla persecuzione dei cardinali Mintszenty in Ungheria, Wyszynski in Polonia, Beran in Cecoslovacchia). Nonostante qualche accordo (come quello della Polonia nel 1950), i regimi lavorarono con ogni mezzo per dividere il clero in patriottico e filovaticano; tanto che quelle comunità cristiane furono definite “Chiesa del silenzio”. In Jugoslavia fu incarcerato il vescovo di Zagabria Stepinac (si affermarono le presunte connivenze dell’episcopato croato con gli “ustascia”). L’Albania si dichiarò stato ufficialmente ateo.
Il Papa insisteva per distinguere le (vere e durature?) conquiste sociali del comunismo dall’atteggiamento di questo contro tutti i credenti, di qualsiasi confessione.
Nel luglio 1949 il Santo Ufficio emanò un duro decreto conto il comunismo e i suoi sostenitori, al quale sistema politico il quotidiano “Osservatore romano” assimilò il socialismo (che allora era spesso totalmente al fianco del primo). Nei radiomessaggi natalizi degli anni 1954-55 il Papa affermò la impossibile collaborazione tra cattolici e comunisti., ma fu lento nel comprendere che, col principio della “coesistenza pacifica” di Malenkov e coll’avvento di Kruscev, le cose iniziavano a cambiare (benché, a dire il vero, le repressioni e persecuzioni non cessarono con quella svolta). Pio XII trattò con durezza le proposte dei polacchi (vedi il cardinale di Varsavia) e degli italiani (allontanamento di mons. Montini da Roma) per un inizio di distensione.
d/ Rapporti coll’Europa occidentale e coll’Italia
Pio XII contava soprattutto sull’Europa per combattere l’ideologia e la prassi comunista. Poteva provvidenzialmente fare credito a tre grandi cristiani: Adenauer in Germania, De Gasperi in Italia, Schuman in Francia; coi quali si ottennero per alcuni anni notevoli affermazioni dei partiti d’ispirazione cattolica.
In Italia, il PCI ottenne il 19% dei suffragi alle elezioni del 1946. Il timore era che il nostro paese facesse la fine della confinante Jugoslavia. I cattolici si mobilitarono, come non mai avevano fatto – in sintonia con la forte organizzazione dell’Azione cattolica - per esempio con i “Comitati civici” di Gedda e col movimento di carattere “ispirato” e fortemente crociato di padre Lombardi (ambedue questi movimenti furono chiaramente favoriti dall’appoggio papale). Alle famose elezioni del 1948 la Democrazia cristiana ottenne insperatamente il 48,5%
De Gasperi , nonostante le pressioni che venivano dal Vaticano, affermò con decisione l’autonomia del partito in campo politico, formò diversi partiti centristi dal ‘48 al ’53 e soprattutto si oppose al listone anticomunista, in contrasto con le sinistre, nelle elezioni comunali di Roma del 1952, perché vi erano incluse forze di destra di chiara impostazione totalitaria. E il grande trentino fu in Vaticano “considerato quasi un ribelle” (Tramontin).
3 – Mezzi usati
Sulla linea del predecessore, Pio XII fece ricorso ai concordati, anche con stati totalitari: Portogallo di Salazar (che mantenne alcuni spunti laicisti), Spagna di Franco (che portò a uno stato “clericale”), San Domingo di Trujllo. Anche con la Repubblica Federale Tedesca si ottennero dei riconoscimenti nella Carta costituzionale.
I mezzi di magistero più usati dal Papa furono:
a) Le encicliche. Quelle maggiori: “Mystici corporis” sulla rinnovata concezione della Chiesa, “Divino affilante Spiritu” sull’interpretazione della Scrittura, “Mediator Dei” sulla Liturgia. Tutte queste tre furono una ventata di nuova teologia che superava l’arroccamento apologetico-conservatore del recente passato. Ci fu anche la “Humani generis”, contrastante il relativismo in filosofia e il soggettivismo nell’interpretazione della Bibbia, critica contro una tendenza teologica nata in Francia: la “nouvelle théologie”. Qualcuno la considera un Sillabo ad uso interno, che ha “posto un grave freno allo sviluppo della cultura cattolica” (Tramontin). E’ vero che sono stati ridotti al silenzio grandi teologi, in seguito reintegrati, ma l’enciclica contiene anche delle interessanti aperture (come vedremo in seguito). Importante è la definizione dogmatica dell’Assunzione corporea della B. V. Maria al Cielo.
b) I discorsi (soprattutto radiomessaggi). Non c’è argomento che non sia stato affrontato con compiaciuta e riconosciuta competenza dal Pontefice: democrazia, pace, ordine internazionale, lavoro,,,,
Si servì anche delle organizzazioni già esistenti o appositamente create: l’Azione cattolica, il “Mondo migliore” di padre Lombardi (che, dopo un periodo di trionfo, si afflosciò), la Pontificia opera di assistenza (che fu anche criticata per lo spirito di monopolio e per l’indistinzione tra azione della Chiesa e dello Stato).
4 – Atteggiamenti
Le critiche mosse a questo papato sono due:
1/ I silenzi. Soprattutto riguardo allo sterminio degli ebrei. La drammaticità del caso ebbe inizio col non certo imparziale dramma “Il Vicario” di Hochhuth. Chi si mette nei panni di un Papa di quegli anni deve spere che: a) il suo spirito diplomatico gli consigliava di non provocare, con prevedibili terribili conseguenze, la potenza demoniaca di Hitler; pensando al caso di Edith Stein (S. Teresa Benedetta della Croce) che, da ebrea tedesca, fu catturata in Olanda per reazione a una lettera pastorale dei vescovi di quel paese; o alla lettera del card. Sapieha di Cracovia che poi fu ordinato di bruciare… b) il Papa non disapprovò i tentativi di soppressione del dittatore, ma coordinò l’assistenza e l’aiuto agli ebrei perseguitati in Italia (per es. con la Commissione pontificia di assistenza, coll’opera di tanti istituti e chiese, con la consegna di 12 kg di oro….) e all’estero coi nunzi (per es. Roncalli a Costantinopoli, l’intervento in favore dei serbi ortodossi di Croazia); c) nessuna delle grandi potenze alzò un dito o emanò un documento. Suscita meraviglia la constatazione che, nonostante i molti riconoscimenti riconoscenti delle autorità e dei rappresentanti degli ebrei, la campagna di rancore contro questo Papa regni ancora sovrana: è il solito errore di chi giudica i fatti di ieri coi parametri di oggi.
2/ L’attivismo e l’isolamento. Era logico che un Papa così capace fosse convinto di dover usare i suoi eccezionali doni naturali come mezzo per una elevatissima missione spirituale. Si possono citare la fama che godeva di alcune esperienze mistiche, la cura della diffusione delle scoperte della tomba di San Pietro, le volute canonizzazioni di alcuni suoi predecessori. Certo era un grande organizzatore, che quanto poteva fare da solo lo faceva molto volentieri. Si affidava a poche e scelte persone (il “Pentagono vaticano” di cinque cardinali, quattro famosi gesuiti, suor Pasqualina Lenhert) e dava poco rilievo alla collaborazione dei vescovi che, come si pensava allora (vedi concilio Vaticano I), erano dei semplici esecutori dei voleri pontifici.
Mi sento in dovere di richiamare le grandi aperture da lui operate nella teologia e nella vita della Chiesa (aperture che segnano l’inizio della preparazione al Vaticano II):
• Coglieva le grandi novità che si presentavano allora soprattutto in Germania: la Chiesa, pur rifuggendo da una visione intimistica, era anche da preservare da quella esclusivamente giuridica (di qui la “Mystici corporis”). La “Mediator Dei” ricordava che la Liturgia non deve seguire l’inventiva di ogni celebrante, ma esprimere la grande valenza di preghiera pubblica della Chiesa. Istituiva anche il nuovo rito per la Settimana santa e dava il permesso della celebrazione di Messe vespertine.
• Dava un enorme impulso agli studi biblici, castigati dalle molte severe decisioni dell’antimodernismo: fondamento sui testi originali, individuazione dei “generi letterari”, centralità della Scrittura nella vita della Chiesa e del singolo cristiano (di qui la “Divino affilante Spiritu”). Concesse una nuova versione del Salterio, represse le tendenze fondamentaliste di Dolindo Ruotolo (ridimensionamento dell’assolutezza della Vulgata), aprì una nuova strada nell’interpretazione del Pentateuco (lettera al card. Suard, nonostante un richiamo restrittivo nella “Humani generis”)
• Nella tanto criticata “Humani generis”, si dava libertà alla ricerca in ambito dell’evoluzione delle specie (non così però per il poligenismo)
• Segnava nuove piste per l’ecumenismo (nella “Mystici corporis”, nella lettera all’arcivescovo di Boston)
• Apertura all’essenziale azione missionaria della Chiesa: “Evangelii praecones”; “Fidei donum”
• Nell’ambito della vita di consacrazione religiosa, introduceva la disciplina degli “istituti secolari”, coi tre voti di castità, povertà e obbedienza
• Internazionalizzò il collegio cardinalizio
Si comprende come una Papa tanto illuminato sia stato male presentato, forse per la sua adesione intelligente alla grande Tradizione, per la sua avversione al comunismo (che fine avrebbe fatto l’Italia senza di lui?) e per la sua lungimiranza malcompresa dai mediocri. Lui, considerato da taluni l’anti-concilio, manifestò ai suoi collaboratori il desiderio di celebrarne uno (e istituì per questo una commissione preparatoria).
Comunque l’avvicendamento tra Papa Pacelli e Papa Roncalli segnerà il passaggio epocale da una chiesa concepita come la vetta di una piramide (secondo il medievale “Papa, qui potest dici ecclesia”) a un’altra con il Vescovo di Roma al centro istituzionale del collegio episcopale e di tutti i fedeli (chiesa-comunione), rimanendo sempre essenziali la centralità fontale di Cristo e quella sacramentale dell’Eucaristia.
Capitolo Secondo
LA GRANDE SVOLTA DEL CONCILIO VATICANO II
Paragrafo Primo
IDEE E MOVIMENTI CHE CONDUSSERO AL CONCILIO
Se usiamo l’immagine della svolta, è perché la Chiesa non è come un involucro immodificabile calatoci dal Cielo, ma vive nella storia, che è come un paesaggio collinare fatto di vallette e di alture. Chi corre spericolatamente su una autostrada perfettamente rettilinea può alla fine trovare un burrone (fuori di metafora: condannarsi a non capire il reale percorso della vita della Chiesa, né sotto l’aspetto storico né sotto quello teologico).
Dopo la prima guerra mondiale, il mondo occidentale è profondamente cambiato, se non altro per l’insorgere dei fatali totalitarismi di destra e di sinistra e perché la Società delle Nazioni non ha saputo prevenire una seconda guerra mondiale. Ma la generalità dei cattolici non se n’è accorta; anzi la Chiesa si è arroccata in una ben munita “cittadella” connotata da una forte rigidità di disciplina al suo interno, a protezione di una verità assoluta e astorica, e da una condanna indiscriminata di tutto ciò che le era esterno (sia nel mondo cristiano sia extracristiano), dove albergavano tutti gli errori.
Era un’immagine apologetica e non più adatta al pubblico attuale che, almeno in parte, conosce le altre religioni e la loro storia. Si può parlare di una malcelata nostalgia di un potere ormai definitivamente perduto; di una Chiesa fossilizzata in una costruzione sperimentata in un medioevo che ci si ostinava a non abbandonare perché ritenuto unica espressione originaria e perfetta della sua essenza. Alcuni baluardi difensivi, in un periodo necessari, dopo qualche tempo possono diventare un ingombro alla circolazione. E ciò conduceva fatalmente a sottovalutare le epoche della Chiesa apostolica, dei martiri, dei Padri (come si chiamano gli scrittori di vita santa e teologia inappuntabile che avevano traghettato con sapienza il messaggio rivelato dall’ambiente semitico a quello greco-romano). Ci sono delle realtà irrinunciabili nella fede-vita della Chiesa, ma queste non possono essere valutate sui parametri di un idealizzato medioevo. A questo punto emerge il problema se la rivelazione fondante abbia un periodo preciso di realizzazione (vita di Cristo e chiesa apostolica) e se p. es. la lettera ai Romani abbia uguale valore dell’Imitazione di Cristo o di un pronunciamento papale o conciliare.
Erano alla base di queste idee concezioni alquanto parziali della Chiesa: identificata in assoluto col Regno di Dio, santa per definizione, società perfetta (vista nella sua ammirevole organizzazione e dotata, alla pari dello stato, di tutti i poteri necessari per raggiungere il suo fine), rappresentante “in toto” della cristianità, chiamata cattolica in opposizione alle altre denominazioni cristiane. Non si applicava la categoria di mediazione (che viene dall’Incarnazione): quando il piano di Dio entra nella nostra storia deve assoggettarsi ai limiti della nostra natura, non data una volta per tutte, ma “in fieri”. La verità e la santità di Dio non sono passate alla Chiesa allo stato puro; nemmeno nelle ispirate pagine della Parola di Dio (e immaginiamoci quale “scarto” dobbiamo mettere in conto nelle parole della Chiesa). I limiti di questo pensiero erano: il giuridismo (più che lo spiritualismo), la consacrazione delle strutture naturali come soprannaturali, l’acosmismo astorico o essenzialismo fissista (dove prevale l’essenza immutabile di fronte alla sua realizzazione sulle vie della storia, dove si tiene conto solo della facoltà intellettiva dell’uomo) ed esclusivista.
Trascurando il principio secondo cui “in ogni errore si può trovare qualcosa di buono” (e forse l’errore è promosso talvolta dalla nostra esposizione non equilibrata della verità), si erano da secoli ignorati gli elementi validi che venivano portati dalle correnti più o meno erronee: umanesimo, protestantesimo, rivoluzione scientifica su natura e storia, giansenismo, illuminismo, marxismo, regionalizzazione di storie e culture, fenomenologia, esistenzialismo. Non ci si accusi di relativismo, perché sono ideologiche le posizioni sia dell’intransigente apologismo, che vede solo gli errori dell’altro, sia della voglia insana di autocritica, che vede solo gli errori commessi dalla propria parte. Tra gli elementi che sono “doni propri della Chiesa di Cristo” (Lumen gentium, n. 8) alcuni possono essere stati conservati meglio dai Cattolici, altri dagli Orientali, altri dagli Evangelici. O, ignorando il cap. 17 di Giovanni, vogliamo litigare tra cristiani fino alla Parusia (la venuta definitiva di Cristo giudice)?
I pontificati “piani” (soprattutto di Pio IX e Pio X) erano segnati da irrigidimento antimoderno e accentramento romano. La doverosa condanna del Modernismo aveva colpito alcuni perniciosi errori del pensiero moderno, ma contemporaneamente nei settori più attivi della Cattolicità, nascevano fermenti di vita, più numerosi quanto più ci si allontanava dal centralismo romano. Fermenti che non erano novità, se non nella forma espressiva, ma che in realtà erano ritorni a un passato glorioso, ma soprattutto costitutivo e normativo. D’altra parte abbiamo visto che da Benedetto XV a Pio XII quei fermenti erano stati presi in iniziale concreta considerazione.
Il concilio ecumenico Vaticano II (1962-65) fu criticato dai conservatori perché non aveva pronunciato anatemi (ma questo ora è riconosciuto come il suo vanto nella storia) o perché usava un linguaggio colloquiale, come tra due amici che vedono come le questioni da loro trattate sono di difficile e non immediata soluzione. Paolo VI, invece di scagliare le sue “truppe” contro gli avversari esterni, ha ritenuto più proficuo e doveroso che la Chiesa guadasse dentro se stessa, per vedere se era stata sufficientemente fedele al programma fissatole dal suo divino costitutore; invece di evidenziare i difetti degli altri cristiani, ha ritenuto di chiedersi in quale misura noi e loro interpretiamo veramente Cristo; invece di combattere quel mondo che “sta in potere del Maligno” (1Gv 5,19), ha pensato di dover dialogare con lui, perché “Dio ha mandato il Figlio nel mondo perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,17; cfr 12,47). Mi sembra che una delle “spie” per capire l’orientamento di fondo del Concilio sia la frase di Paolo VI nel discorso di apertura (29-IX-1963) della seconda sessione: “E’ venuta l’ora (che siano pronunciate) quelle dichiarazioni che dicono alla Chiesa (…) ciò che essa pensa di sé”.
Il movimento preparatorio al Vaticano II è stato molto esteso e profondo. Cercheremo di spiegarlo ricorrendo ad alcune suddivisioni.
I – Sulle fonti teologiche
Qui giungiamo a toccare un punto non certo secondario della fede e vita cristiana. Ricordando il deprezzamento delle “opere” che fu per Martin Lutero il modo per riportare la fede al posto centrale che le compete (con tutte le esagerazioni e le puntualizzazioni criticabili, che vanno esaminate in altra sede), siamo convinti che debbano essere giudicate nel loro valore (che è sempre secondario) le devozioni e le “pratiche di pietà” pullulate dal medio evo in poi a soddisfazione delle anime pie, nei confronti dell’ascolto comunitario della Parola (soprattutto nell’omelia) e della grande Liturgia specialmente della Chiesa. Qualche pio fedele, forse un po’ ingenuo, mette sullo stesso piano una frase di San Paolo, un capitolo di S. Agostino, un messaggio mariano di Lourdes o di Medjugorie.
Su che cosa erano fondate la nostra pastorale, la nostra catechesi, la nostra spiritualità, i nostri libri di pietà, i nostri e esercizi spirituali o ritiri, la nostra produzione di “buona stampa”? Con quale coraggio e competenza storica chiamano in giudizio questo abbandono della tradizione “di sempre”, che invece si rivela corta di 4-5 secoli appena? E’ più cristiano un devoto consumatore degli inginocchiatoi della chiesa per recitare “coroncine”, o colui che ascolta seduto, attento e capace di ricavarne conseguenze operative, l’omelia di un bravo annunciatore della Parola? Ad una pomposa e attempata signora che diceva: “Io, facendo la comunione in quel modo, come sempre si è fatto, sono fedele alla chiesa”, risposi con garbata ironia: “Ma, signora, la chiesa è molto più vecchia di lei”.
La devozione a Santa Rita, a san Gennaro può togliere l’ossigeno alla vera devozione all’Eucaristia, alla Passione di Cristo, allo Spirito Santo; e questo non solo nel meridione, ma anche da noi. C’è gente che considera l’adorazione del Corpo del Signore (e il Sangue?) come l’unica vera devozione eucaristica, mentre alla celebrazione della Messa si riserva il posto di un’osservanza di un comandamento o precetto. La fede del cristiano si edifica non tanto sciamando nei santuari, dove eventualmente si può provare, qualche volta all’anno, la scossa emotiva della devozione, ma nella partecipazione attiva alla mensa della Parola e del Pane, ogni domenica.
C’è il pericolo che venga giudicato “poco devoto, poco santo” un prete che si affanna a riportare in auge l’ascolto, la meditazione, l’utilizzazione pastorale-catechetica della Parola di Dio, e la celebrazione liturgica comunitaria della parrocchia, e si corra dietro a qualche poco equilibrato annunciatore di nuovi messianismi e propagandista (magari non disinteressato) di mirabolanti rivelazioni e di terrificanti rivelazioni apocalittiche.
A – Movimento biblico.
La paura ingenerata dalle esagerazioni luterane e poi moderniste ha fatto da infelice freno agli studi biblici cattolici, specialmente nel sud-Europa.
Si considerava più importante, più decisivo e più chiaro un pronunciamento del magistero dei pastori nei confronti di un libro della Bibbia; e i biblisti venivano temuti come pericolosi guastatori nella trincea di quel libro considerato storicamente fisso e poco utile per la teologia e per la vita cristiane. Anche perché vigeva quell’interpretazione dell’ispirazione che parla di “dettatura meccanica” e si volevano interpretare testi semitici con la nostra mentalità mediterranea; e non si teneva conto che il mistero di Dio, superiore a noi, si penetra meglio sui binari del simbolismo e del narrativo. Furono sacrificati biblisti di grande valore e di vita santa; uno per tutti: Marie-Joseph Lagrange, OP (1855-1938), fondatore de “L’école biblique del Jérusalem”. Jean Guitton ha detto scherzosamente che i cattolici hanno una tale venerazione della Bibbia che la mettono nel posto d’onore sullo scaffale e non hanno l’ardire di toccarla.
L’enciclica “Divino affilante Spiritu” veniva scarsamente (e timidamente) valorizzata. Nelle “tesi” della teologia neoscolastica manualistica si faceva questa scaletta: spiegazione dei termini, errori (che riguardavano le indeterminazioni ortodosse e le eresie protestanti, più che i fenomeni di apostasia che pullulavano nel pensiero contemporaneo), definizione (meglio se magisteriale e infallibile), prove (scarse e non organizzate) dalla Scrittura, dai Padri, ecc. Quando poi i testi della Scrittura venivano citati secondo la non sempre accurata traduzione della Vulgata, si correva il rischio di far dire ad essi ciò che non volevano. Ma nel nord-Europa e nel nord-America gli studi prosperavano e proseguivano a pieno ritmo (Lagrange, De Grandmaison, Lebreton, Adam, Guardini…); anche se, in campo cattolico, si prendevano in visione solo i vangeli. Comunque i migliori tra i “latini” avvertivano un chiaro senso d’inferiorità e di dipendenza dagli studiosi di altra matrice. Il Pontifico Istituto Biblico, da arcigno organo di severo controllo, diventerà motore ferace di studi prima impensabili.
Ma quelle remore portarono anche a un risultato provvidenziale. Dice il grande studioso metodista (di matrice, quindi anglicana) W. F. Albright (1891-1971): “Pur senza voler contestare il minore o maggiore valore di gran parte delle ricerche neotestamentarie negli ambienti acattolici, devo riconoscere che la ricerca cattolica è stata così preservata dall’invasione di futilità che ha caratterizzato la ricerca protestante di cinquant’anni or sono”.
Il problema numero uno era questo: se si poteva accettare la ricerca del “metodo storico-critico” per studiare un testo, quello biblico, che era insieme Parola di Dio e linguaggio dell’uomo; pur evitando quelle esagerazioni che erano state messe in evidenza da studiosi anche non cattolici. Il metodo storico-critico è diacronico (segue la composizione delle varie parti di un libro) e quindi è più attento alla storia della formazione del testo; ma, se presto più attenzione alla teologia, devo leggere la Bibbia col metodo sincronico (il quale considera il testo nella sua forma definitiva, che è divinamente ispirata, e come tale affidata alla Chiesa).
Sull’interpretazione della Bibbia (ermeneutica) si possono scegliere due metodiche estremizzanti e contrapposte: il fondamentalista poteva pensare che ogni affermazione deve essere accettata con assoluta fedeltà e senza alcun adattamento (es.: occhio per occhio…., la guerra santa e l’anatèma); il sincretista relativizzante la considera invece come un qualsiasi libro della letteratura mondiale e che non fornisce alcun principio generale per interpretare le domande nuove sulla vita della chiesa e del credente (es.: primato dell’amore di Dio e superiorità della sua sapienza, soprannaturalità dei doni di verità e di grazia).
B – Movimento patristico
Non solo si proponeva di sorpassare la Bibbia, ma anche la “grande Tradizione” patristica, nelle sue lingue soprattutto latina e greca (e altre orientali), con la loro meravigliosa eredità di tradizione sapienziale (Vagaggini non teme di chiamarla “gnostico-sapienziale”), monastica, mistica, addirittura “apofatica” (per la quale è molto più quello che non riusciamo a dire di Dio), nonché di espressione magisteriale (i grandi concili ecumenici del primo millennio sono stati celebrati in ambiente greco). Ritenendo che il medioevo latino avesse raggiunto l’espressione chiara e perfetta dell’esposizione della teologia, l’enciclica “Humani generis” aveva frenato il ricorso a quella teologia patristica, criticando alcuni grandi autori, quali De Lubac, Daniélou, Chenu, Congar; dalla mente dei quali è germinata la gloriosa collana “Sources chrétiennes”. Così pure si tendeva a dimenticare l’apporto in diversi campi innovativo di autori come Newman, Rosmini, Blondel, Teilhard de Chardin, Gardeil, Journet, ecc.
Comunque rimaneva sotterraneo il disagio di dover aderire a una teologia che, nelle sue espressioni più diffuse (pensiamo al tomismo della neo-scolastica, che metteva in seconda linea la corrente bonaventuriana), esagerava in intellettualismo (quasi razionalismo), in mancanza di vita (non portava facilmente alla preghiera e contemplazione personale), in tendenza riduttivistica del “mistero” (con la presunzione che il teologo o il pastore possano dire di capirlo esaustivamente). I pensatori più profondi non potevano facilmente trascurare una tradizione che, sulle orme soprattutto di S. Agostino, arrivava alla scultorea frase del “Memoriale” di Pascal: “Dio di Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei sapienti. Certezza, certezza, sentimento, gioia, pace. Dio di Gesù Cristo” (dove l’accento, in questo contesto, deve essere messo su “filosofi”).
Al movimento patristico, si deve affiancare, in questa ricerca delle fonti, quello che vede nella Liturgia della Chiesa la fonte immediatamente successiva alla Sacra Scrittura (“Lex orandi, lex credendi”)
Il problema numero uno era questo: se il messaggio della rivelazione cristiana poteva essere espresso e rimeditato anche in categorie proprie del pensiero non semitico, in modo particolare quello greco-romano; tenuto conto che il contenuto non doveva essere intaccato in alcun modo da un linguaggio culturale diverso.
II – Sulla comprensione della Chiesa
A – Strutture generali dell’ecclesiologia
Romano Guardini scrisse nel 1921: “Un processo di incalcolabile portata è iniziato: il risveglio della Chiesa nelle anime”.
Tra i cattolici tedeschi già prima del Vaticano I, emergeva la graduale elaborazione ecclesiologica di un grande teologo, esperto soprattutto in patristica: Giovanni Adamo Moehler (1796-1838). Ma al di fuori del suo ambiente i suoi studi - almeno fino al primo dopoguerra - fecero molta fatica ad ottenere la giusta considerazione che meritavano (se si eccettua la “scuola romana”, cioè degli ambienti universitari ecclesiastici della capitale).
Le sue opere ecclesiologiche principali furono due: “Unità nella Chiesa” (1825) e “Simbolica” (1832). Tra queste è evidente una maturazione del pensiero.
1 – Unità nella Chiesa
Moehler partiva coll’opporsi a una ecclesiologia illuministica, di prevalente intonazione razionalistica e giuridica: società quasi esclusivamente umana, munita di tutti i poteri necessari per il suo buon funzionamento, per la quale Dio all’inizio ha creato la gerarchia e in seguito la guida dall’esterno, ben visibile nel suo corpo dirigente (papa e vescovi). Moehler vi sostituiva una realtà di popolo, che parlava di un corpo morale”di organicismo mistico, di organismo mistico creato dallo Spirito Santo, di spirito del popolo (con evidente simpatia per il romanticismo). Quindi lo Spirito non abita solo nei singoli fedeli, ma “possiede” strutturalmente la Chiesa tutta.
Questa visione, che sottolineava l’unità e l’aspetto divino e interiore della Chiesa, poteva presentare un ipotetico pericolo di scivolare in una vaga spiritualità di sapore panteistico, che ignora quasi del tutto le strutture visibili; quasi un nuovo naturalismo, che sostituisce quello di segno opposto.
2 - Simbolica
Da sacerdote-teologo intelligente qual era, si accorse che doveva ricalibrare il suo orientamento ecclesiologico. Tenendo conto anche di una dimensione chiaramente visibile e strutturale esterna, che si ricorda della “fondazione” da parte di Gesù Cristo e quindi dell’Incarnazione. Oltre allo Spirito, elemento interno, c’è la gerarchia, col suo magistero (i “Credo” sia orientali che occidentali), che sono elementi esterni. E si deve ritienere Chiesa anche il Popolo santo di Dio in mezzo al quale la gerarchia ha la sua funzione di mediazione sacramentale.
In queste due opere Moehler felicemente superava il contrasto tra protestantesimo, che tende a separare lo Spirito dalla Chiesa, e cattolicesimo, che tende a separare la Chiesa dallo Spirito.
3 – Come abbiamo accennato, dopo la prima guerra mondiale, queste idee ritornarono potentemente a galla e portarono a una prima tappa: l’enciclica “Mystici corporis Christi”.
Furono riprese in mano le categorie più antiche della concezione cristiana della Chiesa:
• Chiesa Parola. A chi leggeva i testi del Vaticano I, poteva sembrare che la Bibbia fosse meno determinante e meno concettualmente precisa del Magistero ecclesiastico.
• Chiesa Comunione. Molto prima di società visibile e perfetta, toglie la tentazione di una società che va alla conquista con gli strumenti della potenza, magari di un potere centralistico, o che domina gli stati. Chiesa serva degli elementi più deboli (i “poveri” nel concetto biblico).
• Chiesa Regno. Doveva essere evitata un’adequazione senza adeguate spiegazioni, senza distinguere ordine di questo mondo e ordine eterno.
• Chiesa Popolo. In continuità col popolo dell’AT. Dove il popolo non ha in se stesso la fonte del potere sacro, ma accetta che, al suo interno, ci siano incaricati di una mediazione dei doni soprannaturali (Verità e Grazia).
• Chiesa Corpo. Mentre un tempo con “corpo mistico” di Cristo si indicava l’Eucaristia, nell’enciclica Mystici corporis si intende la Chiesa. La dualità tra Spirito e Cristo deve essere superata nel concetto di Spirito di Cristo.
• Chiesa Sacramento. La Chiesa è costantemente abitata dallo Spirito; è “sacramento dello Spirito”, espressione che W. Kasper preferisce a “Spirito anima della Chiesa”. Cioè non solo oggetto, ma anche strumento, di salvezza. Essa è santa, soprattutto quando è Chiesa orante (nella Liturgia) e distribuisce i doni della Grazia.
Per provvidenziale “trovata” dello Spirito che guida la Chiesa, il concilio Vaticano I non fu concluso: avrebbe fissato dogmaticamente il discorso ecclesiologico in uno stadio di sviluppo che doveva teologicamente essere superato.
Per chi – non lasciandosi intrappolare dalle bellicose e depistanti diatribe tra conservatori e innovatori - volesse approfondire queste tematiche sulla teologia della Chiesa, consiglio un piccolo libro: KASPER-SAUTER, La chiesa luogo dello Spirito, Queriniana, 1980.
B – Movimento liturgico e sacramentale
La Chiesa è una società che ha due funzioni particolarmente importanti:ascolta la Parola e prega (movimento dall’alto e dal basso). Perciò essa esercita il compito della lode perenne e comunitaria a Dio Padre per Cristo nello Spirito.
A partire dal 1800 è nato un movimento che, pur mantenendo la sua dimensione di istituzione esterna, mirava a rivitalizzare la tradizione liturgica della Chiesa, che per varie ragioni si era in parte fossilizzata. Il popolo cristiano aveva due forme di preghiera: una ufficiale, in una lingua sconosciuta e con riti e gesti che ormai avevano smarrito il proprio significato; un’altra che si esprimeva in devozioni e in riti atavici che piacevano tanto a certi ceti. Col pericolo che si abbandonasse la Parola di Dio per seguire le parole dei cristiani (santi popolari) che noi ponevamo nella funzione di esclusivi modelli (quale importanza si riservava a San Paolo?).
Poteva sembrare che tra clero e fedeli si scavasse un fossato (reso visibile anche dalle balaustre) per cui il popolo assisteva alla Messa come a un dramma teatrale (per non lasciarlo chiacchierare o recitare privatamente delle “coroncine”, si consigliava di recitare insieme il Rosario).
Hanno iniziato il movimento alcuni monasteri, specialmente benedettini, quali (solo per esemplificare Maria Laach (1913), Solesmes (1837), Praglia (1904). Uno dei più importanti personaggi è dom Prospero Guéranger (di Solesmes), con la valorizzazione dei testi liturgici per raggiungere una preghiera che non fosse solo privata. Con due limiti: un certo fissismo nella tradizione e mantenimento totale della lingua latina. Altri nomi illustri (fra i tanti, all’estero): Marmion, Gaspare Lefebvre, Casel, Guardini, Parsch, Jumgmann. Quanto poi alla teologia eucaristica fu importante l’opera di Vonier: togliere le strettoie di un discorso apologetico solo giuridico-rituale che sottolinea solo la categoria filosofica di causalità (effetti del sacramento), affiancandole la considerazione cristocentrica (Cristo capo del corpo), la fontalità della Passione di Cristo e l’attesa del futuro (aspetto escatologico dell’Eucaristia).
Il movimento agì con rincorse e rallentamenti. I problemi affrontati furono vari: il posto primario della preghiera pubblica (liturgica) nei confronti delle devozioni; la conservazione o meno dei testi che si erano introdotti per molteplici aggiunte nella storia; la tentazione di un certo archeologismo, con motivazioni estetiche; il bisogno sentito di aprire la liturgia al popolo per farlo partecipare attivamente e comunitariamente. Una delle teologie liturgiche più avanzate e fruttuose fu quella del “mistero” (Casel, che ispirò l’enciclica di Pio XII).
Uno sviluppo che non possiamo considerare secondario fu quella della pubblicazione dei “messalini” festivi o quotidiani nelle lingue moderne (magari con la colonna per il latino e quella per l’italiano) dal decennio 1880-90 in Italia e in Francia.
Come andavano le cose in Italia? A parte qualche isola felice, come per es. la diocesi di Milano (rito ambrosiano), si poteva trovare una resistenza attiva di attaccamento al devozionismo, un più soporifero ritardo, minori risultati a largo raggio. Dobbiamo dire però che avevamo anche noi persone apripista: Bonomelli, Caronti, Schuster, La Fontaine, Bevilacqua, Montini, Bernareggi, Lercaro, Rodolfi.
E la gerarchia cattolica? Era piuttosto guardinga, come in certi periodi attorno al 1925, ma fecero epoca due Papi:
1 – Pio X. Riforma del canto sacro (aveva iniziato già a Venezia, con Perosi), recupero del gregoriano (Graduale, Liber usualis…), mutamenti nel calendario (precedenza alla domenica), ripresa delle ferie di quaresima, riordinamento del Salterio e del Breviario, introduzione di un’età infantile per la prima Comunione, Nel famoso Catechismo (1913) si produceva la traduzione del canone romano in italiano.
2 – Pio XII. Nell’enciclica Mediator Dei (1947) erano contenute due parti. Una negativa, contro abusi e deviazioni, a freno degli innovatori improvvisati, contro l’esclusione assoluta della pietà popolare, ecc. Ma più importante, si stagliava l’aspetto innovativo: concessione dei riti bilingui, rivalutazione della liturgia della Parola e della catechesi liturgica, rinnovamento della Settimana santa, nuove regole per il digiuno eucaristico, concessione delle Messe pomeridiane e della traduzione del Salterio. Altri documenti innovavano nella musica sacra e liturgica.
Ci si incamminava verso l’apertura più ampia del Vaticano II. Chi conosce la storia dell’uomo sa che ad ogni novità seguono anche degli eccessi e delle deviazioni. Spetta all’autorità rilevarli e neutralizzarli.
C – Movimento pastorale e laicale
I - Il cambiamento di autocomprensione della Chiesa che si sviluppava a partire dall’ultimo periodo del 1800 ha indotto lentamente una nuova concezione della cura pastorale e della funzione dei laici. Il concetto di Chiesa che precedeva questa svolta la riconosceva con alcune caratteristiche:
• Organizzazione sul modello di un esercito: graduati che comandano e truppa che combatte. Si era soliti citare il testo latino del Cantico (6,3):“Terribilis ut castrorum acies ordinata”. La visita del vescovo alle parrocchia era molto simile a un’ispezione del generale nella caserma.
• Istituzione-organizzazione in due ben separati settori: “ordo et plebs”, dove gli annunciatori sono gli appartenenti all’Ordine sacro e gli oggetti dell’annuncio sono tutti gli altri, assimilabili a minori (per cui persiste ancora la nefasta identificazione della Chiesa col Clero).
• Si supponeva che i confini della popolazione fossero chiari e distinti: i credenti e gli atei (o non praticanti).
• Il parroco – che non aveva scelto la via dello studio (considerata un sovrappiù dell’azione pastorale) – era visto come un organizzazione pratico della perfetta struttura della sua parrocchia (non era usuale definire comunità quella che il Vaticano II chiamerà chiesa locale).
• Il prete stava in chiesa, dove tutti i fedeli erano chiamati ad assistere ai riti (ambito sacro), ma la vita dei laici si svolgeva al di fuori della chiesa, con una morale indipendente da quella evangelica. Per cui i preti che volevano immergersi nel “mondo” potevano diventare preti operai.
• La predicazione e la catechesi erano di tono apologetico e cotroversistico; il loro stile era definitorio, assoluto e immutabile.
• L’associazione “azione cattolica” era chiamata, in un primo tempo, a collaborare nell’obbedienza (e solo in un secondo tempo a “partecipare”) all’apostolato gerarchico della Chiesa. Nello sviluppo si venivano a valorizzare i sacramenti del Battesimo e della Confermazione.
• I laici si resero conto che erano veri missionari non solo nella chiesa all’estero, ma anche nella nostra situazione ecclesiale.
Ho usato questa forma negativa - pur riconoscendo in quello che è “ancien régime” molti elementi positivi - perché così è più facile far vedere le differenze alle quali ci abituerà il Vaticano II. Evidentemente non escludo, nel nuovo sistema, possibili deviazioni, distorsioni ed abusi.
II - Già alcuni preveggenti si erano resi conto che la Chiesa è lievito all’interno della massa (il mondo) e non un’armatura che doveva proteggere il mondo dei buoni dalle ferite del mondo anticristiano.
Si cominciò a far dipendere la cura della parrocchia dalla “teologia pastorale” più che dal diritto canonico. E la pastorale era fatta più attenta all’uomo che sta “fuori” che non al cristiano fervente. Il mondo che abbiamo di fronte è infatti l’ambiente in cui vive l’uomo d’oggi, pluralista e talvolta relativista.. Ci si è resi conto che per l’annuncio a tutti gli uomini il clero non basta.
Ci si rese conto che la missione può avere tre significati:
• missione a chi non è cristiano o non è religioso (“ad extra”)
• missione (tipo “ad intra” classico) per i “lontani” dalla pratica religiosa
• missione continua rivolta a tutti gli abitanti della parrocchia, credenti o non credenti.
Naturalmente quest’ultimo è l’ambiente da evangelizzare nei tempi moderni.
Alcuni “movimenti” che sono nati in questi tempi sono veri sforzi missionari che lavorano nella vigna del Signore, non in contrasto ma nemmeno in subordinazione all’azione del Clero.
D – Movimento missionario ed ecumenico-dialogale
I - A far data approssimativa dal 1875, tra i cattolici e tra i protestanti (specialmente dai gruppi del “risveglio”) e in misura minore tra gli ortodossi russi, si aprì una felice stagione di interesse e di attività per le missioni “all’estero”, che si estese gradualmente a tutti i livelli ecclesiali.
Una delle figure più rilevanti fu il lazzarista Padre Vincenzo Lebbe che a 24 anni fu mandato in Cina – dove il regime si era avvicinato ai cristiani attribuendo loro anche cariche civili e si sviluppava la rivolta dei Boxers - e si prefisse il compito di vivere con i cinesi alla maniera cinese, e insieme fondò i Piccoli frati e le Piccole suore di San Giovanni Battista; tanto che le sue idee furono accolte nell’enciclica “Maximum illud” di Benedetto XV (1919), specialmente nel formare un clero indigeno. Dopo quel documento, si ebbe un “quarantennio fecondo”, come lo chiamò Mons. Roncalli.
Forse rimaneva qualche residuo del modo di agire dei missionari dei secoli precedenti, che facevano leva anche sull’imposizione di uno schema di vita “europeo”. I missionari a questo momento generalmente si dedicavano all’educazione e alla carità, oltre che alla resistenza a tribalismo ancestrali e schiavitù. In Occidente – citiamo solo Padre Manna e Paolina Jaricot - si curavano la preparazione e l’invio di laici e l’istituzione di benemeriti organismi che appoggiavano la missionarietà a livello nazionale o universale.
In Italia, specialmente dal 1920, aveva inizio un’ampia e profonda attenzione ai problemi delle missioni: iniziative estere di antichi ordini religiosi e fondazione di ordini religiosi specifici, sia maschili che femminili. Si pensi all’importanza del PIME, dei Comboniani e Comboniane, dei Saveriani, della Consolata…..
Oltre all’apertura di Benedetto XV, si deve rendere onore al massimo impulso che diede Pio XI: nel 1926 abbiamo l’enciclica “Rerum Ecclesiae” e la consacrazione di vescovi cinesi; ricordiamo inoltre la centralizzazione (non: centralismo) degli sforzi cattolici e il potenziamento della congregazione “De propaganda Fide”.
Insieme a questi eccelsi meriti, dobbiamo segnalare anche alcuni limiti, che verranno superati solo gradualmente e con le solite incomprensioni.
Specialmente nel primo periodo, si deve lamentare l’implicazione dell’azione dei missionari col grave peso esercitato dal colonialismo e nazionalismo; che produsse una deleteria comparazione tra Cristianesimo e Occidente e portò a persecuzioni quando i regimi sostenitori caddero. Si pensi alle tre “C” proposte dal missionario e medico protestante Livingstone: Cristianesimo, Civiltà, Commercio. I migliori sforzi dei missionari consistettero quindi nel portare la prima attenzione all’uomo, a qualsiasi uomo.
Un altro difetto può essere segnalato: la sfiducia di fondo (e spesso l’incomprensione) delle culture locali, con tentazione di esorbitare nel razzismo; donde la molto cauta e lenta attribuzione agli indigeni di posizioni di sacerdoti-vescovi, o pastori (che però rappresenta dei rischi). L’impulso all’adeguazione alle forme di vita, anche spirituali, dei popoli evangelizzati fu dato chiaramente da Pio XI, per esempio nell’accettazione delle cerimonie confuciane in Cina, Manciuria e Giappone, purchè queste fossero intese come espressioni di amore della patria o della tradizione culturale. E si doveva tener conto dei caratteri peculiari di ogni cultura, in modo che la Chiesa si manifestasse, anche nella liturgia, sempre più “cattolica” (nel senso originario di universale), non latina.
Un ultimo difetto fu la quasi sempre attuata concorrenza tra cattolici e protestanti (per questi, anche tra di loro). Il rimedio fu posto quando si aprì la mente a un sano ecumenismo, in congressi e consigli mondiali. Data la diversa struttura delle comunità protestanti, si può notare che, dopo la persecuzione o l’espulsione, esse furono più fortunate nel lasciare sul posto strutture prese dalla popolazione indigena.
Gravi danni all’azione missionaria furono apportati dalle due guerre mondiali (e le altre…) - per cui i nativi si chiedevano : Da che parte dobbiamo stare? - e l’avvento di regimi totalitari ispirati all’ateismo di massa.
Iniziava a manifestarsi purtroppo anche la tendenza ad una teologia missionaria piuttosto “indifferentista” che, invece dell’identità, privilegia la discussione; o ad un’altra “terrenista” secondo cui basta dar da mangiare (e magari favorire i movimenti rivoluzionari….). Evidentemente questi approcci mettono in crisi anche il fondamento della missionarietà della Chiesa.
II – L’evoluzione del pensiero cattolico, nel senso della fedeltà alla grande Tradizione, non fu nemmeno facile né veloce nel campo dell’ecumenismo (confronto con le altre vie del Cristianesimo) e del dialogo inter-religioso (con le altre religioni). Col primo termine si pensa all’ecumene cristiano, col secondo all’ecumene mondiale.
Ci furono alcuni elementi nuovi che, dall’interno e dall’esterno, fecero capire ai cattolici che non potevano più rimanere beati e contenti nella “torre d’avorio” di una sicurezza che conveniva più ai tempi passati. La conoscenza di Bibbia, Padri, storia della chiesa e della teologia, l’assillo dall’esterno di ateismo e indifferentismo, lo scandalo per la disunione nelle terre di missione ci inducevano ad una rinnovata visione delle cose.
A - La Chiesa è una (come afferma il Credo) e noi preghiamo lo Spirito dell’unità affinchè, prima della Parusia, i cristiani si uniscano nell’essenziale e nell’immodificabile, pur mantenendo la giuste differenze (non: divergenze) che sono state e sono necessarie per adattare l’eterna verità e volontà di Dio alle mutevoli condizioni dei popoli e delle culture che la accolgono e interpretano.
A dire il vero, ad aprirsi all’ecumenismo furono storicamente primi i nostri fratelli (come diciamo ora!) protestanti. Probabilmente perché erano molto più divisi tra di loro, perché riconoscevano il distacco grave che li separava da noi e dagli ortodossi e perché mancavano di una struttura rigida (un’autorità che imponeva di non saltare gli steccati). I primi tra i protestanti a muoversi furono gli anglicani, che erano divisi in tre chiese: alta, bassa, larga. Poi seguirono presbiteriani, metodisti, battisti e luterani. All’inizio del secolo si tenne una Conferenza missionaria mondiale. Nel 1910 ci fu un’assemblea a Edimburgo. I più attivi furono i missionari e i giovani. I gruppi pre-ecumenici erano due: “Vita e azione” che badava più al servizio delle chiese alla società; “Fede e costituzione” che era preoccupata delle divisioni teologiche inter-ecclesiali. Questi due gruppi nel 1938 (prima assemblea nel 1948, per lo scoppio della guerra) si unirono del Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC).
Tra noi cattolici, che precedentemente consideravamo gli errori appannaggio sempre degli “altri” e li chiamavamo al “ritorno”, prevalse l’’atteggiamento della riserva: una lettera del S. Ufficio all’episcopato cattolico d’Inghilterra, nel 1864 disapprovò la teoria dei tre rami (romano-cattolici, greco-scismatici. anglicani); nel 1894 Leone XIII inviò due lettere agli ortodossi (la risposta: è opera del diavolo!); nel 1896 lo stesso Papa riconobbe invalide le ordinazioni anglicane; Pio X favorì la diffusione della novena (che poi si chiamò settimana) per l’unità; Pio XII nel 1952 mandò degli “osservatori” alla conferenza “Fede e costituzione”; nel 1949 un nuovo decreto del S. Ufficio cominciò a parlare di “movimento ecumenico”.
Però, oltre all’opera dell’inglese Lord Halifax, emersero le figure sacerdotali cattoliche di Portal (colloquio con gli anglicani, problema delle ordinazioni anglicane), Couturier (adattò a noi la settimana di preghiera per l’unità, pose attenzione alla teologia dei russi rifugiati in occidente), Beauduin (fondatore del monastero belga di Chevetogne), Thils, Lortz (cercò di comprendere meglio il pensiero di Lutero), Bouyer (fondò nel 1947 il centro Unitas), Congar (il quale cominciò a parlare di valori cristiani presenti al di fuori del cattolicesimo). Si cominciò ad essere sensibili alla distinzione tra errore ed errante, tra dottrine e uomini. Benedetto XV favorì i colloqui di Malines, Pio XI sottolineò la necessità della conoscenza degli altri. In Italia (dove esistono le eparchie di Piana degli Albanesi e di Lungro) si fecero avanti la chiese di Palermo e i monasteri di Olzai e di Grottaferrata.
Con gli ortodossi il discorso doveva essere più lento, anche perché le loro chiese sono rette secondo il sistema dell’autocefalia. Il grande Soloviev (morto nel 1900) spingeva verso l’ecumenismo: sintesi tra la Chiesa che prega (ortodossa) e la Chiesa che agisce (romana), ma fu scomunicato. Ma Gioacchino III, patriarca di Costantinopoli nel 1902 arrivò a parlare della tre grandi vigne del Cristianesimo; nel 1920 il patriarca Doroteo scrisse “ a tutte le chiese di Cristo dovunque esse si trovino”; nel 1922 il patriarcato riconobbe la validità delle ordinazioni anglicane. Alla conferenza di Losanna di “Fede e costituzione” del 1927 parteciparono ben 22 delegati delle chiese ortodosse. Mi è gradito ricordare altri nomi: Bulgakov, Florovskij, Zender, Evdokimov, oltre al patriarca Atenagora.
B - Un percorso più breve e più imprevedibili ha fatto nel pre-concilio la teologia del dialogo inter-religioso. Teniamo conto che il concilio è stato celebrato negli anni 1962-65.
Per secoli si era ripetuto il principio “Extra ecclesiam nulla salus”. Senza tenere conto di chi ha conosciuto o mai sentito nominale Cristo e il suo vangelo…Il problema aveva fatto dei passi avanti coll’enciclica Mystici corporis (1943) e con la lettera del S. Ufficio del 1949 all’arcivescovo di Boston.
La prima figura è il teologo Kueng., il quale nel 1957 entrò in dialogo con Barth sul problema chiave del protestantesimo: la giustificazione del peccatore (come l’uomo da ingiusto davanti a Dio diventa giusto). Ci si accorse che i due parlavano lingue diverse mentre probabilmente dicevano essenzialmente le stesse cose: il cattolico usava la filosofia scolastica, il protestante usava l’idealismo. Kueng dal 1960 inizia la fase delle pubblicazioni di contenuto ecclesiologico (che terminerà nel 1970) con lo studio “Riforma della Chiesa e unità dei cristiani”.
La teologia delle religioni fino agli anni ’60 si esprimeva con due valutazioni diverse:
a) Per la teologia dialettica rappresentata da Barth (1922) si presenta la religione come una pretesa di dare la scalata a Dio (La religione è incredulità; è tentativo di autogiustificarsi), opponendole il concetto chiave di rivelazione.
b) La teologia cattolica rappresentata da Daniélou col suo volume “Il mistero della salvezza delle nazioni” (1946), arriva a concepire le religioni come preparazione al vangelo, trovando esse provvidenzialmente compimento nel cristianesimo. La spiritualità missionaria è insieme incarnazione e redenzione, nel senso che il vangelo si incarna nelle culture per trasfigurarle.
Un altro teologo comparve sulla scena della Chiesa: Karl Rahner. In una conferenza tenuta nel 1961 sul tema “Cristianesimo e religioni non cristiane” propose la tesi – che deve essere presa con molte precisazioni e limitazioni – dei “cristiani anonimi”. Partendo dalla volontà salvifica universale (1Tm 2,4: “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità”) – che però deve essere messa insieme col versetto seguente: “Uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù” – egli argomenta che la grazia di Dio può raggiungere gli uomini anche al di fuori della Chiesa cristiana, e che le religioni non cristiane rientrano nella “Provvidenza salvifica di Dio”. “Ogni uomo è un cristiano anonimo obbligato però a diventare cristiano effettivo”. Mi sia permessa una critica: non è questo un sogno utopico?
Citiamo un ultimo teologo: Schlette. Nello studio “Le religioni come tema della teologia” (1963) diceva che tale teologia è possibile solo nel contesto della storia della salvezza, arrivando a dire (rovesciando il lessico teologico usuale) che le religioni sono la via ordinaria della salvezza, e ricorreva ad un’etichetta: “epifania come storia”, cioè “la salvezza si realizza realizzandosi l’epifania della gloria di Dio, e non viceversa” (Gibellini). Quindi la Chiesa non è l’esclusiva via della salvezza.
I discorsi non erano però del tutto nuovi, se ricordiamo alcune famose espressioni dei Padri e scrittori dei primi secoli cristiani: le religioni pagane potevano essere una “preparazione del vangelo” (per usare un’espressione di cui si servirà in seguito Eusebio di Cesarea a proposito dell’ebraismo). San Giustino parla dei “semi del Verbo” depositati nelle tradizioni religiose pre-cristiane; Sant’Ireneo traccia lo schema di quattro alleanze: con Adamo, Noè, Mosè, Gesù, e tutte queste sono Logo-fanie (manifestazioni del Logos, cioè del Verbo), in quanto con esse il Verbo si preparava all’incarnazione; Clemente di Alessandria ritiene che la filosofia, anche religiosa, dei greci fu voluta come propedeutica alla “filosofia” cristiana, ma poi fu superflua, come la lampada diviene inutile all’apparire del sole.
Naturalmente i discorsi dei teologi moderni, caduti improvvisamente durante lo svolgimento del concilio, assumevano la veste di una provocazione, mentre avevano bisogno di una serena e non breve considerazione.
Nota conclusiva a questo importante paragrafo
Chi legge senza paraocchi il concilio e i suoi frutti ha il dovere razionale di capire che molte di quelle che sembrano novità sono in effetti un ritorno alla grande Tradizione della Chiesa indivisa (comprendendo quindi tutto l’arco del primo millennio), in fedeltà all’unico elemento immodificabile: la rivelazione consegnata alla Chiesa apostolica e post-apostolica. Chi non capisce questo, dimostra di non conoscere la verità della storia e specialmente della storia della Chiesa e della teologia.
Non solo, ma costui esce dal recinto della maggiore virtù cristiana: la carità. La grande preghiera-testamento di Gesù (Gv 17) ci impone infatti questa lettura, sfuggendo al pericolo di rimanere invischiati nelle contrapposte fossilizzazioni paragonabili alle manovre di eserciti che si combattono. Perché la Chiesa di Cristo non si fonda tanto sull’autorità, ma sulla carità, perché il rivelatore Dio Uni-trino più che Onnipotenza è Amore (1Gv 4).
Ma forse l’incomprensione sorge quando si considera la vita della Chiesa come una struttura materiale forte, invincibile, indistruttibile, costituita di cemento armato. Serve all’uopo il famoso esempio che troviamo anche in S. Vincenzo di Lérins (anno 434 circa): un corpo animale cresce sviluppandosi e non distruggendosi; cresce, ma è sempre l’identico corpo.
Se in alcuni gruppi cristiani si riscontrano degli errori, è lecito fare come il contadino insensato che, per eliminare alcuni alberi infettati, brucia tutto il frutteto?
Quindi quel grande evento che fu il Vaticano II non deve essere giudicato una cesura deprecabile nella storia della Chiesa, ma una risposta doverosa al cambiamento dei tempi e degli uomini, dono dello Spirito di Cristo alla Chiesa di Cristo per cui non guardiamo più orizzontalmente ai difetti degli altri, ma tutti insieme, guardando all’unica radice che è Cristo, ci chiediamo come tutti siamo stati fedeli all’evento genetico della salvezza.
Ci sono stati degli errori o delle deviazioni nell’attuazione delle idee del concilio? Non facciamo come il guidatore avvinazzato che attribuisce i difetti di guida alla cattiva costruzione della vettura (fuori di metafora: le proposte del concilio), piuttosto che alla sua inesperienza o avventatezza.
Nel ventesimo secolo la Chiesa si è trovata ad un momento decisivo, come un medico che si trova ad affrontare una situazione grave e nuova. La grave lacuna di cui si prendeva sempre più chiaramente atto, in una situazione in cui si conoscevano i cinque continenti (senza dichiarare: Hic sunt leones!), era la divisione del cristianesimo in troppi rivoli e fiumi: come si obbediva alla volontà suprema di Cristo “Ut omnes unum sint”? Non valeva la pena di ricorrere al mezzo principale usato dal magistero nel primo millennio, cioè di pensare a un concilio ecumenico? Un saggio proverbio dice: “Chi fa sbaglia qualche volta; chi non fa sbaglia sempre”. Se dal concilio si sarebbero potute ipotizzare delle deviazioni e incomprensioni (tutti i concili nella storia sono stati accettati dopo discussioni e sommovimenti), ciò non bastava per arrestarsi nel provvidenziale proposito. E Dio diede alla Chiesa cattolica in Papa Giovanni (così fu eccezionalmente chiamato) un “uomo della Provvidenza”.
Paragrafo Secondo
Giovanni XXIII e l’inizio del Concilio
Dopo Pio XII ci domandavamo tutti: Chi potrà essere un successore all’altezza del Pontefice regnante? Eppure Dio sa mandare il pane secondo i denti e il freddo secondo i panni (come dice il proverbio) e mandare uno che sa rispondere non solo all’intelligenza, ma anche al cuore della gente e sa mettersi al suo livello.
Angelo Giuseppe Roncalli aveva avuto una “carriera” molto comune: incaricato dell’opera missionaria, diplomatico fino a raggiungere Parigi, patriarca di Venezia.
Era un vecchio contadino saggio (aveva 77 anni), legato alla tradizione, anche con alcune forme di durezza. Il suo motto episcopale fu quello di San Filippo il buono: Oboedientia et pax. Applicava un servizio pastorale senza avvalersi dei mezzi umani e cedimenti verso il temporalismo. Ma era più pastore che diplomatico, amico di tutti più che castigatore delle insubordinazioni di alcuni. Era un conoscitore della storia e della patristica, con una non superficiale conoscenza dell’Oriente. Il suo “Giornale dell’anima” non conteneva nulla di straordinario, ma cose semplici e profonde, dette con entusiasmo e semplicità. Aveva ricevuto qualche osservazione da Roma per qualche inconveniente in Bulgaria e per l’apertura pratica ai socialisti nel loro congresso di Venezia.
Lo avevano eletto Papa perché fosse un pontefice di passaggio, come uomo di compromesso tra le varie correnti del Sacro collegio, che in poco tempo avrebbe lasciato il posto ad uno più abile e sperimentato. Ma in meno di cinque anni di pontificato avrebbe orientato in modo nuovo il timone della Chiesa cattolica. Non era un sovvertitore, ma usava la tradizione per adattarla alle esigenze del mondo contemporaneo. I primi gesti, molto comuni, fecero però grande impressione: la visita all’ospedale Santo Spirito e al carcere Regina Coeli (non erano queste le vecchie opere di misericordia corporale?). Ruppe la tradizione che voleva nel 70 il numero massimo di cardinali ed elesse a quella dignità il dimenticato Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano. Operò una necessaria riforma della Curia romana.
Con grande sorpresa e con scarsissimi applausi, il 25 gennaio 1959 nella basilica patriarcale di San Paolo annunciò alla Chiesa e al mondo la decisione – oltre quella di riformare il CIC e di celebrare un sinodo romano - di convocare un concilio ecumenico. Dopo il Vaticano I (primato e infallibilità del Papa) era ancora necessario (e opportuno!) un concilio? Secondo alcuni, il Papa pensava ad un concilio breve, portasse alla beatificazione di Pio IX e fornisse alcune norme sul comportamento dei ministri sacri. Il sinodo della diocesi di Roma, però, si era concluso con banali indicazioni ripetitive sulla tenuta esteriore dei sacerdoti! Però Montini, Atenagora e alcuni protestanti colsero il nuovo spirito che giungeva da Roma.
La fase preparatoria del concilio era davvero prevista in tempi troppo brevi. E l’inizio fu molto tradizionale: dominanza degli uffici di Curia e dei teologi ad essa graditi (prevalenza della commissione teologica guidata dal card. Ottaviani); la mole dei documenti si rivelò eccessiva (75 schemi elaborati dalle commissioni!). Nel radiomessaggio dell’11 settembre 1962 il Papa indicava in quello pastorale il primo fine del concilio. Quindi non voglia di condanne, ma spirito di dialogo con tutti. Penso che sia stata preziosa la vicinanza del suo segretario particolare mons. Loris Capovilla.
Ne uscì un concilio non dominato dalla potenza del Papa (come era stato il Vaticano I), ma ispirato – oltre che dallo Spirito Santo! - da tutti i vescovi dei cinque continenti (erano più di 2500), guidati dal Papa.
Il discorso inaugurale della prima sessione (11 ottobre / 8 dicembre 1962) proposte dei punti fermi e veramente nuovi. Il dovere dei vescovi non è solo quello di custodire il “deposito della fede (cfr 1-2Tm)”, ma di fare un balzo in avanti “in corrispondenza più perfetta di fedeltà all’autentica dottrina, anche questa però studiata ed esposta attraverso le forme dell’indagine e della formulazione letteraria del pensiero contemporaneo. Altra è la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei e altra è la formulazione del suo rivestimento (….); con “un magistero prevalentemente pastorale”. Più avanti parlava di “suggestioni di persone, pur ardenti di zelo, ma non fornite di senso sovrabbondante di discrezione e di misura (…). A noi sembra di dover dissentire da cotesti profeti di sventura…”.
Alla prima sessione furono invitati anche gli “osservatori”, cioè teologi e pastori non cattolici, alcuni dei quali rappresentativi e di grande valore. Al che il card Ottaviani esclamò “Horresco” (sono inorridito)! Questa sessione non produsse alcun documento, ma segnò in maniera indiscutibile il metodo dei lavori conciliari.
Quando si trattò di scegliere i membri delle commissioni conciliari, non si accettò che fossero quasi tutti provenienti dalle congregazioni curiali, ma, per intervento dei cardinali Liénart e Frings (il quale aveva a fianco tra i consulenti un giovane teologo: Joseph Ratzinger), ma s’incaricarono le conferenze episcopali (nome nuovo!) di eleggerli liberamente..
Un’altra evoluzione si attuò sul documento “Le fonti della rivelazione”, dove la precedente teologia metteva la Scrittura e la Tradizione sullo steso livello. I vescovi tradizionali furono 821 e quelli innovatori 1368. Ma il Papa “saltò” la vecchia indicazione che richiedeva i due terzi dell’assemblea e si formò una commissione mista che comprendeva il biblista card. Bea.
Altra modifica fu apportata allo schema sulla Chiesa. I cardinali Suenens e Montini affermarono che tale tema doveva essere centrale e unificatore su tutti i temi del concilio e si procedette a formare una “supercommissione” per il loro coordinamento.
Nel giugno del 1962 si manifestò la grave malattia del Papa, che sarebbe spirato il 3 giugno 1963. Le sorti del concilio sarebbero dipese dalla scelta del successore.
Paragrafo terzo
Paolo VI e la continuazione del concilio
Secondo il Diritto canonico, il concilio poteva essere sospeso (come si era fatto per il Vaticano I) o addirittura chiuso. Jean Guitton disse che il concilio è come un aeroplano: per farlo decollare occorre molto slancio e poca precisione, ma per farlo atterrare occorre molta precisione e poco slancio. In questa immagine sta il coraggio, la difficoltà e la bravura di Paolo VI. Il Papa elogiò subito il predecessore, attribuendogli il dono di un’ispirazione divina e un acuto desiderio di andare incontro ai bisogni dell’età moderna. E pose quattro fini al concilio: una più meditata definizione della Chiesa, il suo rinnovamento, la ricomposizione dell’unità coi fratelli separarti, il lancio del ponte verso il mondo contemporaneo.
Alla seconda sessione furono chiamati gli uditori laici. Il 30 ottobre 1963 furono approvati a maggioranza i cinque punti proposti dal card. Bea, che riguardavano la figura dei vescovi, la loro collegialità e la restaurazione del diaconato. Furono approvati due documenti: sulla liturgia e sugli strumenti della comunicazione sociale. Si parlava già di un documento sui rapporti della Chiesa col mondo e il Papa auspicava che il concilio proclamasse la Madonna “Madre della Chiesa”.
I lavori della terza sessione furono oggetto di molte discussioni: i vescovi (soprattutto quelli che vivevano in territori misti cattolici-protestanti, e quelli che desideravano mettere un giusto argine alle esagerazioni popolari) non vedevano utile la proclamazione a Madre della Chiesa. Il dibattuto problema della collegialità dei vescovi portò a fare ben 41 votazioni sul capitolo III del documento sulla Chiesa (costituzione gerarchica). Comunque questo documento fu approvato, seppur con l’intervento del Papa (nota explicativa praevia) su quel capitolo più discusso. Furono approvati altri due documenti: sull’ecumenismo e sulle Chiese cattoliche di rito orientale. Nel discorso di chiusura della terza sessione il Papa di propria iniziativa proclamò la Madonna Madre della Chiesa. E ciò diventò così un atto del concilio ecumenico. Su tutti questi lavori (e ciò vale anche per l’ultima sessione) ci fu chi vide una rottura tra il Papa e i vescovi, ma un giudizio più pacato parla di ritocchi in una prudente linea papale di conciliazione fra le diverse opinioni espresse nei dibattiti.
La quarta e ultima sessione vide aumentato fino a 84 il numero degli osservatori e dei laici. In essa furono approvati ben 11 documenti: sui vescovi, sulla vita religiosa, sulla formazione sacerdotale, sull’educazione cristiana, sulle religioni non cristiane, sulla rivelazione, sull’apostolato dei laici, sulla libertà religiosa, sulle missioni, sul ministero e la vita dei presbiteri, su Chiesa e mondo.
Annotiamo che i sedici documenti si dividono in costituzioni, decreti e dichiarazioni.
Il Papa, nell’ultima sessione, riassunse i risultati ottenuti dal concilio: la Chiesa ha cercato di conoscersi meglio, per scrutare il mistero, cioè il disegno e la presenza di Dio sopra e dentro di sé. La Chiesa ha guardato all’uomo nella sua situazione concreta, ponendosi come ancella dell’umanità, nella linea del “ministero”.
Il lavoro fu enorme (gli atti riempiono 27 grossi volumi): 171 congregazioni generali, 7000 interventi, 519 votazioni. Chi si meraviglia delle acese discussioni non conosce la storia degli altri concili. Chi giudica secondo quisquiglie questa mole di lavoro è un superficiale, che non conosce la storia della teologia né la complessità dei problemi umani.
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